Testimonianza di
Egidio Franzini, Tenente degli Alpini del 1° Reggimento, tratta dal suo
libro “In Russia”. Stamperia Editrice Zanetti, Venezia, 1946
17 gennaio, tramonto.
Lasciamo il fronte e ripieghiamo a scaglioni successivi verso il centro
raccolta del 1° Alpini. Nei pressi di Topilo la pista è ingombra,
congestionata. Il freddo è intenso, oltre 30 gradi sotto zero, ma non lo
sentiamo tanto siamo eccitati. Più avanti si nota un senso di orgasmo
generale. I reparti sono disciplinati e gli uomini ancora freschi. Ma si
deve cominciare ad alleggerire le slitte; la pista si cosparge di
cassette, di barili, di zaini. Puntiamo verso Nowa Kalitva dove ci
incontra il generale Battisti. Stiamo per essere accerchiati. Avvengono
i primi scontri con pattuglie russe. I reparti si accavallano. Ecco i
primi morti. Sono fermi ai lati della pista, seduti nell’atto di
pisolare. Quando cerco di scuoterne uno lo sento freddo e lo vedo cadere
di fianco, senza reazione, assiderato; e altri ancora. Incrociamo
reparti russi in avanzata. Quando ci scorgono urlano ebbri, ci esplodono
le armi addosso. Avviene un incidente. Un soldato mette un piede su una
bomba sepolta nella neve la quale scoppia tra noi e loro. Urla di
feriti. I russi pensano ad un nostro attentato. I russi mettono nelle
nostre file un confidente che parla italiano. La divisa italiana si
confonde benissimo con la massa. Camminiamo verso Rossosc che
raggiungiamo. Per la strada lunghe colonne di carri armati pesanti con
soldati ebbri dalla vittoria. I cingoli ci sfiorano paurosamente.
Qualcuno dei nostri soldati viene maciullato così, per ischerzo.
All’entrata in
Rossosc la colonna viene fatta inoltrare verso est. Incomincia il
calvario; spesso senza motivo alcuno i russi ci sparano addosso. Molti
cadono. Gli innocenti soldati italiani, a decine, si abbattono sulla
neve. Spesso incontriamo dei gruppi di russi avvinazzati. Ci vengono
vicino, ci sputano addosso, ci picchiano, sparano. Non vedono che siamo
dei prigionieri innocui? E la famosa fratellanza verso il proletariato
mondiale? No, noi non siamo delle persone; noi siamo delle cose, dei
bersagli da tiro a segno. Ma neanche i nostri aguzzini sono delle
persone. Essi sono delle belve. Mentre si marcia ci fanno sostare, di
tanto in tanto a distendere sulla neve. Dei poliziotti corrono in mezzo
a noi con le pistole in pugno, preceduti da cani vigorosi e feroci. La
strada si cosparge di cadaveri, nudi, mutilati. Alla fine di ogni tappa
dormiamo all’aperto o in stalle, gli uni accanto agli altri, per
riscaldarci col nostro stesso calore, col nostro fiato stesso. E così
marciamo per giorni. Impossibile descrivere queste marce. Si va senza
ricevere alcun alimento, con 35 gradi di freddo, angariati e tormentati
da russi che tutto possono sul nostro corpo. Nessuno li controlla.
Nessuno ci protegge. Chi potrà credere che abbiamo marciato per sette
dieci giorni mangiando solo qualche boccone di pane offertoci dalla
popolazione?. E del resto, se me lo avessero raccontato altri, se non la
avessi io stesso vissuta questa avventura certamente non crederei. Ma
noi reduci, noi ex prigionieri dell’ARMIR lo sappiamo bene tutti quanto
abbiamo patito e quanto abbiamo resistito!
Siamo al settimo
giorno di marcia. Sono completamente privo di forze, i baffi, la barba,
i capelli sono diventati un solo blocco di ghiaccio che mi attanaglia il
volto. Mi sento il cuore cedere e la testa leggera. Mordo la neve a
larghi bocconi per stancare le mandibole e far tacere i crampi al
ventre. Non capisco più nulla, vaneggio, deliro…Dicono che chi non parte
viene freddato dalla scorta. Facciano pure…Giungiamo a Vorobioka, vengo
ricoverato nell’ospedale che non è nient’altro che una baracca di legno.
Non c’è organizzazione né disciplina. Per far presto ti pestano, ti
torturano. Ad ogni bagno perdiamo tre, quattro uomini; restano morti sui
tavoli del bagno. Il cuore cede e trac, senza rumore, il giovane che ti
parlava sino a qualche momento prima è già freddo a terra. Il dottor
Ferrarini (del comando Divisione Celere) medica ed opera nel mezzo della
baracca-ospedale; una vecchia panca ed uno sgabello formano il suo
gabinetto chirurgico. Il congelamento ha fatto e fa strage dei nostri
arti. Piedi gonfi, marci, dai quali esce un fetido siero purulento. E
senza anestesia, senza conforti bisogna operare, tagliare, asportare le
parti necrotiche cancrenose. Vi sono anche le tigri. Ci guardano due
giovani soldati siberiani, comandati da una sergentessa. Si divertono,
all’ospedale a pestare sadicamente le piaghe dei malati, farli urlare di
dolore. Battono col calcio dei fucili i moncherini di questi poveri
cristi senza difesa. In preda al delirio un ungherese si allontana dal
baraccone. Al mattino dopo, rientrato in sé, il disgraziato si presenta
all’ospedale da solo. La sergentessa se lo prende con calma, lo conduce
alla buca dei morti. Ne fa un bersaglio per il suo fucile. Spara diversi
colpi finché uno raggiunge alla testa il malato e lo ammazza.
Dall’ospedale-baracca Egidio Franzini venne poi condotto nel gulag di
Kalac…. 1° Maggio. La festa del Lavoro si svolge mentre nel campo c’è
un’atmosfera di terrore. Un giovane siciliano addetto a lavori mentre
attraversava il piccolo prato accanto alla cucina, è prelevato da una
guardia avvinazzata che l’ha costretto a distendersi a terra e senza
alcun motivo lo ha freddato con tre copli di fucile alla testa. Io
stesso l’ho visto, al mattino in una pozza di sangue. Ecco come si
muore. La nostra vita vale zero, meno, questa, del pidocchio che mi
circola sul guibotto. 9 maggio. Veniamo caricati su di un treno. Tutto
il campo viene evacuato. Al nostro arrivo eravamo circa 900; a questi se
ne aggiunsero molti rastrellati nei villaggi, nel colcos. Ripartiamo in
circa 200. Gli altri sono tutti morti in due mesi.
Dove siamo ora ci
giunge regolarmente “L’Alba”; è il giornale per i prigionieri di guerra
italiani, edito a Mosca per conto del Governo Sovietico, diretto da
comunisti italiani nell’URSS. Vi collaborano i principali esponenti del
comunismo italiano, Ercoli (Palmiro Togliatti),
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La storia del reduce Giovanni Riba,
di Giovanna Giannini
Giovanni Riba nacque a
Cuneo nel 1919. Fino allo scoppio della guerra era un contadino. Fu
reclutato nel 1939 con la diciannovesima compagnia del Battaglione
Dronero. Il 6 giugno 1940 nell’alta Valle Maira cominciò la sua
terribile avventura. Dopo alcuni giorni si ammalò gravemente e dovette
rimanere quasi un anno in convalescenza. Una volta guarito nell’aprile
del 1941 fu inviato in congedo come tutti quei soldati che avevano avuto
almeno 180 giorni di convalescenza. Ma il 1° aprile del 1942 fu
richiamato nuovamente dal suo battaglione. Da subito cominciarono a
circolare delle voci di un possibile trasferimento in Russia, voci che
presto divennero realtà. Il 31 luglio 1942 alle sei di mattina con la
sua compagnia lasciò Dronero. La partenza si svolse in un clima di
festa, con la gente che per strada festeggiava il loro passaggio
offrendo del vino.
Come lo stesso Riba ricorda in treno quell’euforia svanì
presto. Dopo alcuni giorni di viaggio arrivarono alla stazione di
Stalino, dove sostarono un’intera giornata. Seguirono 33 giorni di
marcia per raggiungere il < bosco dei topi> e finalmente 3 giorni di
riposo, trascorsi però sotto la costante minaccia degli aerei russi che
volavano a bassa quota. Ripartirono in camion e dopo 24 ore di viaggio
proseguirono a piedi in una marcia notturna. Il 26 settembre 1942
giunsero sul Don. Riba era il telefonista del battaglione e il villaggio
nel quale alloggiò era disabitato e in buona parte distrutto. Gran parte
del tempo lo trascorse in un bunker sotto terra. Il 16 gennaio 1943
abbandonò con i suoi compagni quel villaggio e ricominciò a marciare,
destinazione Rossosc. Qui il paesaggio era ancora più desolante. C’era
un continuo movimento di cannoni e civili russi che scappavano su delle
slitte. Era difficile per loro soldati capire quello che stava
accadendo. Nel frattempo man mano che si procedeva nella marcia ci
furono i primi morti per congelamento. Dopo 3 giorni di faticoso cammino
arrivarono a Popovka dove sostarono dalle dieci di mattina fino a sera
tardi e ne approfittarono per abbandonare altri soldati morti congelati.
Era un’operazione
penosa ma necessaria perché, come ricorda lo stesso Riba, sarebbe stato
altrimenti difficile proseguire trascinando dei cadaveri. Nella notte
ripresero a marciare e dovettero oltrepassare anche un fiume ghiacciato.
I proiettili vi avevano aperto delle buche dove alcuni soldati caddero e
morirono. Dopo alcuni giorni di stasi vennero informati che i russi
erano nelle vicinanze e che presto avrebbero attaccato. Stesi sulla neve
videro il nemico avanzare e cominciarono a sparare. Riba si trovava con
il tenente Aldo Paschiero vicino ad un ponte. A 50 m da lui c’era un
soldato ferito che gridava da ore sempre la stessa frase : " Dite ai
miei che non torno a casa". Nel pieno della notte arrivò l’ordine di
ritirata. Il mattino seguente le autoblinde russe bloccarono nuovamente
la loro colonna. Ci fu un breve scontro ma alla fine poterono riprendere
il cammino, ma nella notte subirono un altro attacco. Tentarono per tre
volte di rifugiarsi in un villaggio, ma i russi sparavano anche dalle
case. Finalmente all’alba riuscirono a raggiungere un altro paese
vicino. Riba entrò in un’isba e si stese vicino ad un forno per avere un
po’ di calore. Alle otto di mattina assieme ai suoi compagni venne
catturato. Fu incolonnato e messo in marcia sotto la neve. Camminò fino
alle due del mattino finché non raggiunsero il campo di concentramento
di Valujki dove c’erano 12.000 prigionieri. Fu perquisito e rinchiuso in
una baracca di legno.
Data la scarsità di
cibo mangiava muli morti e scambiava con i soldati russi quel poco che
aveva in cambio di pane. Dopo 27 giorni di prigionia di quei 12.000
restarono solo 4.000 prigionieri. Morivano dai 700 agli 800 soldati al
giorno. Oltre al freddo molto dipendeva dalla scarsa alimentazione. IL
cibo in quei 27 giorni venne distribuito 5 volte e solo a chi era sano,
ma la popolazione locale li aiutava fornendo di nascosto barbabietole e
patate. Quei 4.000 superstiti vennero poi trasferiti altrove. Condotti
in stazione, prima di essere rinchiusi in un vagone, rimasero un’intera
giornata fermi sotto la neve. Furono sistemati 70 prigionieri in ogni
vagone. La razione giornaliera di cibo consisteva in una pagnotta di 4
kg da dividere tra otto persone. Rimasero chiusi in quei vagoni 7 giorni
e siccome l’acqua spesso non veniva distribuita, leccavano le parti in
ferro del treno. Si approfittava delle soste per vendere, attraverso i
finestrini, i propri effetti personali per avere in cambio qualcosa da
mangiare. Trascorsa una settimana vennero aperti i vagoni ma solo per
gettare i morti. Riba ne approfittò per scendere di nascosto dal treno e
riempire alcuni barattoli di acqua, ma mentre stava risalendo un soldato
russo lo colpì alla testa e gli fece disperdere l’acqua. Il viaggio
riprese e il nuovo rancio consisteva in 100 g. di pane secco, 20g di
burro e un pezzo di aringa da dividere tra 4 persone. Dopo 4 giorni di
viaggio arrivarono a Tambov. Qui furono messi di fronte alla scelta se
proseguire il viaggio in treno o fermarsi. Riba e altri 300 soldati
italiani scelsero di non proseguire il viaggio. Dopo 4 km di marcia
giunse al nuovo campo di concentramento dove fece amicizia con una cuoca
italiana di Cuneo.
Questa amicizia gli
permise di avere sempre qualcosa da mangiare e soprattutto di avere
informazioni dall’Italia. A Tambov erano in 32.000 e ogni nazione aveva
la sua baracca. Nel campo il pericolo numero uno erano le malattie,
infatti a causa del tifo morivano circa 700 persone al giorno. I morti
venivano trascinati nudi su slitte, condotti nei boschi e gettati in
enormi buche scavate dagli stessi prigionieri nella terra dura e gelata.
Giovanni Riba era tra quei prigionieri addetti al seppellimento dei
morti e raccontò che spesso dovevano accendere dei fuochi per scaldare
la terra e scavare meglio. Solo il giorno di Pasqua del 1943 ne sotterrò
170. I cadaveri venivano mischiati tra loro nelle fosse perdendo così
ogni nazionalità, ecco perché ancora oggi non si può sapere con certezza
chi è morto in Russia. Dopo l’8 settembre i russi promisero agli
italiani che presto sarebbero tornati a casa, invece rimasero in quel
campo altri due mesi. Il viaggio di ritorno in Italia non fu facile. Nel
suo treno c’erano 1800 italiani e giunti in Mordovia vennero nuovamente
smistati in vari campi. Riba fu rinchiuso nel campo 56/3. Il suo lavoro
consisteva questa volta nell’abbattere degli alberi e nel fare delle
scarpe con la corteccia di alcune piante. Gli alloggi erano dei
baracconi lunghi 25m e alti 2 piani. Ogni baracca conteneva dai 1300 ai
1500 prigionieri. Le giornate trascorrevano al lavoro nei boschi, e
spesso gli alberi da trasportare erano talmente grandi da richiedere per
il trasporto anche 90 uomini. Ogni sera sul piazzale del campo veniva
effettuato il controllo dei prigionieri che durava in media 15 minuti.
Molte volte l’appello avveniva con temperature che scendevano anche
sotto i 40°. Il 7 agosto 1945 cominciarono a partire i primi soldati
italiani e Giovanni Riba fu tra questi. Partirono in 300 e dopo circa 6
km di marcia giunsero alla stazione.
Ogni 25 prigionieri
c’era una sentinella. Dopo un’intera notte passata sotto la pioggia ad
aspettare l’apertura dei vagoni , il viaggio cominciò. Arrivati in
Romania, a Bucarest, i prigionieri vennero condotti in un campo
internazionale, dove solo per bere bisognava fare una coda di 200 metri.
Dopo due settimane di permanenza, prima di ripartire, vennero fatti
sfilare nudi dalla cintola in su con le braccia alzate. I russi
esaminavano attentamente le ascelle di ognuno di loro per vedere se si
nascondessero delle SS. I soldati tedeschi avevano infatti un marchio
tatuato proprio in quel punto. Qualora venivano trovati venivano
picchiati e rispediti in Russia. Alla stazione di Bucarest i prigionieri
godettero di alcune ore di libertà. Girovagando per la città Riba
incontrò una famiglia italiana che gli dette ospitalità e al ritorno in
treno riuscì a barattare due sue camicie con una battaglia di grappa. La
fermata successiva fu in Ungheria. Qui la sosta durò ben 5 giorni.
Siccome l’attesa si era fatta insostenibile, Giovanni Riba si allontanò
dalla stazione. Giunse in un villaggio dove venne ospitato da una donna
che gli preparò un abbondante pranzo. Al ritorno in stazione però il suo
treno era già partito. Recatosi dal capostazione per avere delle
spiegazioni, scoprì che la sua tradotta avrebbe raggiunto un binario
distante da lì 3 km. Ma giunto al binario si accorse che il treno era
già passato. Dopo un’intera giornata riuscì finalmente a salire al volo
su di un treno. Arrivato alla stazione di Budapest riconobbe la sua
originaria tradotta e riuscì a salirvi sopra proprio mentre si stava
avviando. Era ormai convinto che presto sarebbe ritornato a casa, invece
dovettero passare ancora altri 100 giorni. A Berlino infatti successe un
fatto inspiegabile: il suo treno cambiò binario e ritornò indietro a
Francoforte. Riba vi restò 30 giorni chiuso in un campo di smistamento
diretto dai russi prima di ripartire . A Innsbruck ci fu un’altra sosta
dove venne denudato e spruzzato con un liquido disinfettante. Il 14
novembre 1945 arrivò a Bolzano e poi a Pescantina dove ricevette 2400
lire ed abiti nuovi. Da Torino giunse a Cuneo dove venne accolto in un
convento di suore. Dopo alcuni giorni di permanenza finalmente tornò a
casa sua dove venne accolto da una terribile notizia. Suo fratello
Francesco, comandante partigiano delle formazioni GL della Valle Maira,
era stato ucciso dalle Brigate nere. Molta gente volle sapere della sua
esperienza in Russia, ma preferì tacere. Lui stesso in un’intervista
dirà di aver vissuto un’avventura talmente inverosimile al punto da non
sembrare vera neanche a lui. Lo Stato gli riconoscerà una pensione di
guerra di quinta categoria.
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In quelle terre inospitali, di cui
erano gli invasori, gli italiani trovarono il modo di farsi ben volere.
«Quando eravamo lontani dal fronte aiutavamo i contadini, povera gente,
a raccogliere il frumento. Il loro atteggiamento per noi era una cosa
commovente: di solito non mettevamo il cappello con la penna per
non farci individuare dai partigiani, ma avesse visto come ci hanno
accolto le donne e i giovani quando siamo arrivati a Rossos... In quelle
terre vivevano i cosacchi del Don, molti erano nomadi, gli
uomini passavano il tempo a bere mentre le donne lavoravano nei campi.
Ci hanno trattato davvero come amici, non come nemici». E i tedeschi?
«Ah, quelli no, guai, non li potevano vedere».
I cannoni, poi, erano antiquati 105/11 presi ai greci nel ’41.
Malvestiti, male armati, «mutilati» di una batteria, i soldati italiani
avevano il fucile 91 (dall’anno di produzione, il 1891) modificato
nel ’38, ad un colpo solo. «Dall’altra parte, i russi avevano il
Parabellum, automatico con 32 colpi, pensi no. Siamo stati mandati là
proprio allo sbaraglio».
dove gli alpini rimasero fino al 17 gennaio, un mese dopo il
ripiegamento di tutte le altre divisioni. «I tedeschi ci hanno
sacrificato mentre ripiazzavano il fronte più a ovest, sul Donez. I
russi hanno avuto un mese per circondarci. Dal 17 al 26 abbiamo fatto 11
combattimenti per uscire dalla sacca: l’ultimo, a Nicolajewka, iniziato
al mattino, fu un vero macello. E il giorno prima c’era stata un’altra
dura battaglia a Nikitovka. Ricordo che qui ci siamo addormentati per 23
ore in un’isba e siamo stati svegliati dai russi entrati di
sorpresa. Siamo usciti abbandonando i fucili, le uniche armi che ci
erano rimaste, e avevamo solo alcune bombe a mano. A Nicolaevka a
sfondare più che altro è stata la massa, roba da non credere: eravamo
alcune migliaia, i russisi sono aperti e noi siamo passati. Alle
undici di sera abbiamo dovuto rimetterci subito in marcia perché i russi
ci seguivano ancora».
Quando siamo arrivati, erano le 6 del mattino, hanno suonato l’allarme:
non volevano che la popolazione vedesse in che condizioni eravamo.
Vestivamo solo coperte, anche ai piedi, dopo che per disinfestarci dai
pidocchi avevano distrutto i nostri abiti».
Aldo Corti aveva allora 20 anni ed era sposato. Nato a
Montefiorino, sull’Appennino modenese
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Testimonianza di Giovanni Battista
Fissore
(dedicate alle care nipotine Fabiana e Francesca)
Fui
destinato al IV Reggimento Artiglieria Alpina, Gruppo Pinerolo,
Divisione
Cuneense nel marzo 1940.
Il IV
Regg.to Art. Alpina venne costituito nel 1934 contemporaneamente alla
formazione della IV Divisione Alpina Cuneense.
Le Divisioni Alpine erano a quell'epoca:
I Divisione Alpina Taurinense
II Divisione Alpina Tridentina
III Divisione Alpina Mia
IV Divisione Alpina Cuneense
Nel
1935, con l'inizio delle operazioni in Africa Orientale, viene
costituita la V Divisione Alpina
Pusteria, subito impiegata in Abissinia.
Il IV Regg.to Art. Alpina
partecipò in Africa Orientale alle operazioni con la 11°
Batteria del Gruppo
Mondovì,
II 1° settembre 1939 ha inizio la II Guerra Mondiale con l'invasione
della Polonia da
parte delle truppe
tedesche.
L'Italia mantiene la posizione di non belligeranza fino al Giugno 1940,
II 10 Giugno 1940 anche
l'Italia entra in guerra.
Premetto che l'armamento in dotazione a noi Truppe Alpine era composto
dal fucile
91, già usato dai nostri
padri nella guerra '15-' 18 contro gli Austriaci; le batterie
dell'Artiglieria Alpina
erano dotate delll'obice 75/13, preda bellica della guerra '15-'
18, prodotto dalle officine Skoda in Cecoslovacchia.
Con questo intendo far
rilevare l'insufficiente preparazione dell'Italia ad affrontare
qualsiasi conflitto.
Noi del IV Regg.to eravamo accampati sopra Frabosa Soprana quando
ricevemmo
l'ordine di andare sul
fronte francese; a tappe forzate raggiungemmo l'alta Val Maira
con gli Alpini del 1° e
11° Regg.to,
La 9°
Batteria alla quale io appartenevo ebbe l'ordine di proseguire e
piazzarsi
all'imbocco della valle
dell'Otoré, nei pressi di tre fortini francesi ed aprire il fuoco
per facilitare l'avanzata
degli Alpini verso il fondo valle.
Eravamo a circa 4000 mt. di altezza e per arrivare alla zona
predestinata, dovevamo
scendere per un ripido
pendio ove la neve ghiacciata era alta. I muli, sui quali erano
caricati i pezzi
che compongono l'obice, sprofondavano e non riuscivano a
proseguire.
Furono allargati dei teloni sulla neve sui quali vennero coricati i muli
uno alla volta
facendoli così scivolare nel telone sulla neve per tutta la lunghezza
del canalone fino ad una mulattiera
percorribile. Con lo stesso sistema trasportammo tutto il materiale
che
avevamo.
Devo
spiegare che l'obice 75/13 è composto da più pezzi: bocca da fuoco,
testata,
etc. -smontabile-; viene caricato ogni pezzo a
dorso di mulo e si deve arrivare in
qualsiasi punto della montagna (in quanto dove non arriva il mulo arriva
l'Artigliere Alpino, portando lui
stesso il pezzo a spalla) poi si rimonta ed è pronto per il
puntamento e lo sparo.
Cercando di passare nei sentieri più nascosti arrivammo la sera del 23
Giugno in una
zona che il nostro bravo Comandante Capitano
Penna ritenne valida per piazzare i
nostri pezzi 75/13 e sparare sui fortini "il giorno dopo".
Era tardi, avevamo consumato quelle poche
gallette che ci erano rimaste e ci
sistemammo alla meglio sotto le rocce per passare la notte.
Verso le 5 del mattino (24 Giugno - S.
Giovanni Battista giorno del mio onomastico)
sentendo la necessità di muovermi per
sgranchirmi, esco dalla nicchia e dopo aver
gironzolato un po' incontro il Capitano Penna
il quale mi dice: " una buona notizia,
Fissore, i Tedeschi, sono già a Parigi, hanno sottoscritto l'armistizio
con la Francia" Per
fortuna nostra prima che fosse cominciata era finita: Sia lodato il Buon
Gesù......
Comunicai al mio gruppo del III0
pezzo la lieta notizia e non passò un quarto d'ora
che tutto l'accampamento era in piedi.
Con immensa gioia ci raggruppammo per
commentare la notizia, era il 24 giugno -S.
Giovanni Battista e con alcuni amici decidemmo
di andare a trovare i Francesi nei
fortini. Fummo accolti con calore
insperato, avevamo fame, ci diedero del cioccolato: Alcuni
di loro erano stati a Torino per lavoro o per
studio e parlavano un dialetto torinese
perfetto. Io non avevo ancora compiuto
vent'anni e quanto mi stava succedendo mi turbava.
Mi domandavo perché eravamo andati a
combattere contro gente così buona. Ci
salutammo amichevolmente ed uno di loro disse: "Noi abbiamo perso la
guerra, ma abbiamo finito, Voi avete
vinto, ma non avete terminato". Quanto aveva ragione! ! ! !
Per
noi seguì il fronte greco/albanese e l'incomprensibile fronte nella
steppa russa:
muli contro carri armati.
Nell'autunno fummo mandati in Gamia, si parlava di operazioni contro la
Jugoslavia,
ma non successe nulla così ci fecero rientrare
nella nostra caserma di Cuneo, il 28
ottobre 1940 ebbero inizio le operazioni contro la Grecia.
Noi fummo inviati in Albania nel mese di
dicembre per prendere parte al confflitto.
Partimmo da Cuneo con un convoglio ferroviario
che ci portò a Bari dove rimanemmo
circa dieci giorni in attesa di essere imbarcati sulle navi per
raggiungere il porto di Valona in
Albania.
Il
primo giorno di sosta a Bari, girando per la città con alcuni amici
commilitoni in
libera uscita, ci trovammo davanti ad un caffè-bar con orchestra e poiché
a tutti piaceva la musica prendemmo
posto ad un tavolo ordinando la bevanda meno costosa
(allora i soldini scarseggiavano).
Nel nostro gruppo c'era un mio caro amico
-Tonio Costamagna- bravissimo batterista
che, trascinato dalla musica, non si trattenne
dal chiedere al capo orchestra di farlo
provare. Prese posto alla batteria e si esibì talmente bene che fu
invitato a suonare con l'orchestra
tutte le sere della nostra permanenza a Bari.
Tonio si esibiva attirando i clienti ed il
proprietario ci offriva pasticcini e bevande
gratis, contento dell'afflusso di clienti
attratti dal batterista prossimo alla partenza
per il fronte greco/albanese.
La
sera del 24 Dicembre fummo imbarcati; era un convoglio di cinque navi e
qualche
piroscafo di scorta e salpammo per il porto di
Valona (Albania). Verso il mattino, non lontani dal porto di Valona, il
sibilo delle sirene delle navi
bruscamente ci svegliò. Indossammo il salvagente e corremmo in
coperta. I sommergibili inglesi
avevano lanciato siluri contro il nostro convoglio. La nave
Firenze fu colpita e stava lentamente imbarcando acqua. Malgrado
l'ordine fosse
di rimanere sulla nave, parecchi Alpini si
gettarono in mare, qualcuno fu ripescato
altri no.
Intanto si era avvicinato uno dei piroscafi di scorta per imbarcare gli
uomini rimasti
sulla nave colpita. Altri piroscafi davano la
caccia ai sommergibili inglesi lanciando
bombe di profondità.
Noi
sulla nave Italia fummo fortunati poiché il Comandante, il quale aveva
avvistato
il siluro che ci era stato lanciato contro,
con un colpo di timone cambiò la rotta in
modo che il siluro ci sfiorò senza colpirci.
Con le altre tre navi, fortunatamente indenni,
raggiungemmo il porto di Valona, dove
sbarcammo con tutto l'armamento accampandoci in un uliveto sopra il
porto.
Era il giorno di Natale 1940, il mio primo
Natale lontano dai miei cari genitori,
fratelli e sorella.
Qualche giorno dopo partimmo per il fronte raggiungendo la zona di
Brataj, dove
prendemmo posizione con i nostri pezzi 75/13,
in appoggio agli Alpini che dovevano
andare all'attacco della postazioni greche per poi avanzare in
territorio albanese verso la conquista
della Grecia.
Premesso che io ero puntatore al pezzo, devo spiegare che l'obice spara
con una
traiettoria inferiore al mortaio, superiore al
cannone, e la distanza tra i due deve
essere calcolata molto esattamente in montagna, dove l'obiettivo da
colpire non è visibile dalla postazione
del pezzo. Si fa quindi riferimento ai dati ricevuti dal gruppo
di vedetta, il quale giunto in posizione di
avvistamento del nemico, comunica il punto
detto "falso scopo" sul quale puntare e
sparare.
Entrammo subito in azione e seguendo i dati di puntamento
dall'osservatorio, caricai
e puntai sul "falso scopo" ordinando ai
tiratori di far fuoco. Rimanemmo in
quella postazione per diversi giorni sparando anche a zero, ci furono
giorni di poggia e grandine, ma nulla ci
fermava, si doveva sparare.
io
ero al III0 pezzo della 9° batteria; il puntatore dopo ogni
colpo sparato controlla che
il pezzo sia ancora esattamente puntato prima
di ordinare al tiratore di far fuoco. Mi ero scordato di spiegare alcune
cose che qui aggiungo per una conoscenza più completa.
Sparare a zero significa che il nemico ha
attaccato e non è lontano, quindi più colpi si sparano e più si
impedisce l'avvicinamento.
Coordinando puntatore, timoniere (colui che sposta la coda dell'obice in
base alle indicazioni del puntatore per puntare sul falso scopo) e
tiratore, si riescono a centrare più colpi.
Sicuramente, con la fretta di sparare più colpi nel minor tempo
possibile successe che, a seguito di uno spostamento di coda prima che
fosse ben fermata a terra, partì il colpo e la granata scoppiò prima
dell'obiettivo calcolato.
Questo errore indusse i nostri Comandanti a pensare che in noi -puntatori
al pezzo-fosse subentrata la paura. Ma non era così infatti,
precedentemente ero stato leggermente ferito e necessitavo di essere
medicato presso il reparto medico. Mi mandarono al reparto medico degli
Alpini molto più lontano del nostro dell'Artiglieria Alpina e per
raggiungerlo percorsi sentieri dì montagna molto pericolosi.
Al ritorno, dopo essere stato medicato,
riferii al mio superiore il quale chiese conferma dell'esattezza di
quanto gli avevo comunicato.
A
distanza di tempo ne dedussi che volevano provare se avevo paura e senza
saperlo lo avevo dimostrato. Chiedo scusa se racconto tutto quanto
successe, Il puntatore è seduto sulla sinistra della bocca da fuoco, con
cannocchiale panoramico per il puntamento, mentre il tiratore siede
sulla destra con una leva che viene tirata per far partire la granata
messa nella bocca da fuoco dal caricatore. Un giorno, dopo aver sparato
ininterrottamente per molto tempo, vidi che al tiratore era uscito un
rigagnolo di sangue dall'orecchio sinistro. Quando la polvere da sparo
viene incendiata nella testata della bocca da fuoco per il lancio della
granata produce un suono secco molto forte che gli aveva leso la
membrana del timpano.
io come puntatore non ebbi perdite di sangue
dall'orecchio destro, ma col tempo mi
accorsi che non sentivo i suoni acuti ed in ambienti chiusi quando più
persone parlano
contemporaneamente non distinguo le parole dell'interlocutore vicino.
Dalle
due visite fatte allora (una dalla Dott.sa Garando) risultò che il nervo
acustico,
che dal timpano va al cervello, era
leggermente leso, ma non era consigliato
l'intervento per non rischiare di peggiorare
l'udito. Intanto il nostro Capitano
Penna aveva pensato ad un'altra interessante azione:
lasciare nella postazione dove si trovavano il III e IV pezzo e portare
il I e II pezzo quasi in cima al monte in una posizione dove si poteva
colpire il nemico con facilità.
Arrivarono con i muli abbastanza vicino alla
postazione poi a spalla gli Artiglieri
Alpini fecero il resto. Questa azione
ebbe successo in quanto riuscimmo a colpire l'accampamento greco
una mattina all'ora della distribuzione del
caffè e ne derivò un fuggì fuggì a gambe
levate. A
marzo ci spostammo verso la zona di Zorghian -Jugoslavia. Con la Grecia
era finita. I tedeschi avevano occupato
ance Atene e firmato l'armistizio.
Nella zona di Zorghian il Gruppo Mondovì fu molto impegnato nell'aprile
1941 per la
conquista di Dibra.
Anche con la Jugoslavia era terminato il
conflitto e ci imbarcammo nel porto di
Durazzo per ritornare in Italia alle nostre sedi.
11 22
giugno la Germania attaccò la Russia e nel mese di luglio iniziarono le
partenze
per il fronte russo delle Divisioni Torino,
Celere e Pasubio. Nei mesi di Febbraio,
Marzo 1942 inizia l'approntamento della Cuneense per la
Russia, II Gruppo Val Po del IV Regg,to
Artiglieria Alpina viene ridotto a due
batterie, la 72° e la 73°, che vengono dotate di cannoni da 105/11 in
sostituzione del
vecchio 75/13.
Viene
istituito a Vercelli un corso di specializzazione nella motorizzazione
al quale
mi iscrivo, lo frequento e vengo trasferito
dalla 9° batteria al Comando Reggimento,
quale graduato responsabile del nuovo reparto
motorizzato del Comando. Per l'invio
sul fronte russo il Comando Reggimento era stato dotato di N. 3
autocarri per trasporto materiale, N. 3
moto per portaordini e la macchina del Colonnello
Oriandi.
Le
partenze per il fronte russo avvennero tra la fine di luglio e la prima
decade di
agosto 1942.
La
mia nuova posizione nell'ambito del Comando Regg.to, non essendo più al
pezzo,
mi fece pensare alla possibilità di contatti
con la gente del luogo. Allora decisi di
comprare un vocabolario Italiano/Russo a Cuneo
prima della partenza della tradotta.
Russo con caratteri cirillici e Ialino, che mi fu utilissimo (ci sì
arrangia da giovani, anche senza
preparazione).
Noi
appartenenti al Comando Regg.to, con il nostro Comandante Col. Oriandi,
lasciammo Cuneo il 2 Agosto con destinazione sul fronte dei Monti Urali
nella regione del Caucaso. Giunti con la tradotta a Rostov eravamo
convinti di andare sui monti del Caucaso
destinazione stabilita. Ma prima della
partenza da Cuneo era arrivato ai Comandi un
contrordine con la nuova destinazione sul
fiume Don.
La
nostra sorpresa fu grande in quanto truppe alpine equipaggiate ed
addestrate alla
guerra in montagna avrebbero dovuto
scontrarsi nella steppa russa con forze
motorizzate e corazzate - muli contro carri
armati - era insensato, Ancora oggi non
riusciamo a capire come gli alti comandi militari di allora abbiano
accettato questa decisione sicuramente
sgorgata dalla mente di politici incapaci.
Verso
il 15 settembre 1942 il IV Regg.to artiglieria Alpina raggiunse a tappe
il fiume
Don insieme ai reparti della Divisione, dopo
circa un mese di marce giornaliere con i
muli carichi di pezzi e materiale vario.
Noi del reparto motorizzato con il Capitano
Ronzoni andavamo in avanguardia per
cercare il luogo più adatto all'accampamento notturno, quindi potevamo
contare su di un certo numero di ore
libere in attesa dell'arrivo dei reparti appiedati.
Questo tempo mi fu molto utile per i contatti
che riuscii ad avere con la gente russa,
cercando di imparare la loro lingua aiutandomi
con il vocabolario che avevo comprato a
Cuneo.
I
contatti giornalieri con quella gente dal viso bonario, molto simili ai
nostri contadini
che vivono in campagna lontano dei ritmi delle
grandi città, mi furono di molto aiuto
perché riuscivo a capire quanto soffrivano per non poter esprimere i
loro pensieri a causa dei divieti
imposti dal loro governo, specialmente per quanto riguardava la
religione.
Sempre per maggior -chiamiamola precisione o coscienza- voglio
raccontare un fatto accaduto e che non
ha nulla a che fare con la guerra.
In
una delle tappe di avvicinamento al fiume Don, andai con due compagni a
bussare
alla porta di un'isbà. Ci aprì un vecchietto e
dopo i saluti chiesi se era possibile avere
un pollo che naturalmente avremmo pagato. Lui
lo preparò ma mi fece capire che non
voleva nulla poiché loro non potevano vendere o comprare poiché non
circolavano soldi.
Allora ricordando che avevo portato da casa
dei pezzi di sapone per lavare la
biancheria, gli lasciai il sapone e presi il pollo.
Continuammo a parlare, io cercavo di
raccontare della nostra bella Italia, della nostra
religione, di un solo Dio per tutti e capivo
che anche loro erano molto religiosi, ma ne
parlavano solo dopo aver conquistato la loro
fiducia.
Avevo
con me un'immagine della Madonna, gliela diedi, mi ringraziarono e mi
chiesero un aiuto.
Era
di pomeriggio e mi chiesero di tornare a casa loro la sera per aiutarli
nel caso
fossero di nuovo passati due soldati tedeschi
che avevano visto le loro figlie e che
avevano fatto capire che la sera sarebbero ritornati per intrattenersi
con le barisnie (signorine).
I miei genitori mi avevano insegnato a
rispettare il prossimo, ad aiutare in caso di
bisogno e mai approfittarne se non condiviso.
Tornai alla sera con due amici, vennero i
soldati tedeschi a cercare le barisnie che si
erano nascoste e la famiglia cercava di far
capire che proprio non c'erano, Visto la
loro insistenza ci alzammo tutti e tre noi
soldati italiani dicendo "raus"" ed indicando
la porta di uscita con fare minaccioso.
Raus era l'unica parola di tedesco che
conoscevamo e se ne andarono. Noi non
avevamo mai visto le loro figlie e neanche chiedemmo di vederle, avevamo
fatto del bene e ne eravamo lieti.
Quella buona gente non sapeva come ringraziarci, ci salutammo
augurandoci di non
avere più guerre. Ritornando alle tappe di
avvicinamento al fronte del Don, noi del Comando Regg.to raggiungemmo
Solonzj a pochi chilometri dal fiume. Il Gruppo Pinerolo si stabilì a
Stare Kalitva, il Gruppo Mondovì a Marabut, il Gruppo Val Po a Topiloed
i reparti con munizioni e viveri furono dislocati nelle retrovie nella
zona di Rowenki. Su tutto il fronte del fiume Don, ove le truppe alpine
presero posizione, furono costruiti dagli stessi Alpini lunghi
camminamenti sotto terra e locali dove poter vivere e combattere notte e
giorno, nascosti al nemico ed abbastanza riparati dal freddo. Il lavoro
compiuto dagli Alpini e dall'Artiglieria Alpina sul fronte del Don nei
mesi prima del dicembre '42 fu così valido e sicuro che lo schieramento
alpino, malgrado l'inferiorità dell'armamento, resse a tutti gli
attacchi effettuati dai russi. Là nessuno è passato.
Noi del reparto motorizzato ci costruimmo
a Solonzj un locale seminterrato
utilizzando tronchi di pino, rami intrecciati e paglia impastata con del
terriccio argilloso con il quale
rivestimmo le pareti della nostra abitazione ed una specie di
camino dove poter bruciare legna per
scaldarci. Giornalmente i camion
portavano rifornimenti di munizioni e viveri ai reparti
dislocati nei vari punti ed i motociclisti consegnavano al nostro
comandante col. Orlandi gli ordini del Comando dell'Armir Gen. Battisti.
Aggiungo un altro avvenimento che avevo
scordato di raccontare prima. Un giorno
fui mandato col motociclista Cesco Milano (di Sanfrè) a portare ordini a
truppe dislocate nella zona; girammo alla
ricerca per un bel po' di tempo, ma
inutilmente. Incominciò a piovere, le
strade non erano asfaltate e la terra argillosa copriva le ruote
della moto rendendole simili a dischi per cui
si procedeva con molta difficoltà. Era
quasi buio ma si andava avanti sperando di trovare almeno un
accampamento militare per passare la
notte, ormai eravamo appiedati e spingevamo la moto con
grande fatica.
Arrivammo ad un'isbà e dissi a Cesco:
"tentiamo qui". Bussai alla porta,
l'uscio lentamente lasciò uno spiraglio ed intravidi un vecchietto
che, sentendomi salutare in russo, prese
coraggio ed aprì. Io facevo del mio meglio
esprimendomi con quanto avevo imparato nella
lingua russa. Entrammo e ci accolse
anche una vecchietta e ci offrirono i soliti semi di girasole
abbrustoliti. Parlai dell'Italia, del nostro bel sole, dei nostri
contadini e loro mi
raccontarono che avevano quattro figli sotto
le armi e che non avevano più notizie da
quando erano partiti.
Dissi
loro dei miei anziani genitori a casa, dell'errore di fare le guerre e
venne l'ora
di riposare.
L'atmosfera era serena, volevano farci dormire nel loro letto, ma
rifiutammo;
accettammo invece con gratitudine il materasso
che mettemmo per terra e dormimmo lì.
Prima di dormire dissi a Cesco: "è gente
buona, però facciamo un'ora di guardia
ciascuno per maggior tranquillità". Mi
chiese di farlo prima io perché era molto stanco, accettai, ma senza
accorgermene mi addormentai, forse
prima di lui, svegliandomi al mattino.
I nostri buoni vecchietti ci avevano preparato un po' di latte e ci
chiesero di restare con loro come
figli, perché nell'inverno "ormai prossimo" non avremmo attraversato
la steppa.
Compresi il senso di quest'ultima frase quando iniziammo la ritirata.
Li salutammo ringraziandoli di cuore e con
la moto rientrammo al nostro
accampamento. Nel mese di dicembre '42 furono formati dei gruppi di
intervento per ciascuna delle Divisioni
Alpine. Alla Divisione Cuneense fu
destinato a questo scopo il Battaglione Pieve di Teco del
1° Reggimento Alpini affiancato dalla Batteria
di formazione "Viìlanova" composta da
elementi provenienti da altre batterie.
Verso la fine di Dicembre una Divisione di fanteria non resse al
massiccio attacco russo nella zona di
Taly, per cui prese il suo posto la Divisione Mia,. Le truppe
corazzate
russe, dopo aver sfondato in quel punto del
fronte, continuarono l'avanzata fino
Kantemirowka- circa 70 Km. nelle retrovie si diceva.
Era
il 14 Gennaio 1943 e da alcuni giorni il nostro Comandante Col. Orlandi
non
riceveva più ordini e non poteva più
comunicare con il Comandante d'Armata Gen.
Battisti. Dal fronte già ripiegavano le nostre
truppe alpine passando sulla strada che
da Solonzj portava a Rossosk. Il
Comandante venne nella nostra postazione a comunicarci che era
necessario metterci in contatto con il
Comando del Corpo d'Armata quindi decise di mandare a
Rossosk con la sua macchina il Cap.no Ronzoni
con il suo autista Tolozan ed i
motociclisti Bianchi e Chicca per avere notizie.
Partirono nella notte, attendemmo il loro ritorno fino al giorno 17, ma
non ricevemmo
più loro notizie. Dopo molto tempo ci fu
comunicato che la macchina diretta a
Rossosk era stata colpita quella notte da un proiettile di un carro
armato.
Lo
stesso giorno, era domenica, le truppe alpine che tenevano il fronte sul
fiume Don
avevano già iniziato la ritirata (non perché
cacciati dalle loro postazioni, ma perché i
Russi avevano sfondato anche sul fronte tenuto
dai Rumeni e stavano accerchiandoci) e
verso le ore 17 il Col. Orlandi decise il ripiegamento anche del nostro
reparto.
Messo
in moto un camion e fuori uso gli altri, dopo aver recuperato le moto ci
accodammo ai mezzi che arrivavano dal fronte
per dirigerci verso Rossosk dove
arrivammo a notte inoltrata.
A
Rossosk trovammo un grande magazzino pieno di viveri e munizioni giunti
dall'Italia per i rifornimenti delle truppe al
fronte. Trovammo anche un grande
concentramento di militari sbandati appartenenti a diverse armi e
nazioni che si trovavano in guerra
senza ormai ordini né comandi. (L'avanzata dei Russi aveva
interrotto i collegamenti tra alcuni reparti
di servizio e le forze di combattimento).
Anche noi ci trovavamo con il solo Capitano
Scognamilio, in quanto sicuramente il
Col. Orlandi aveva cercato di raggiungere il Gen. Battisti per
coordinare le operazioni.
Fatto il rifornimento di viveri nel magazzino
di Rossosk, il nostro gruppo motorizzato
partì con il camion con il Cap. Scognamilio.
Purtroppo ci dovemmo fermare poco dopo
di fronte ad un pendio che nessun automezzo era riuscito a superare.
Abbandonato il camion, zaino in spalla,
coperta legata sopra, due bombe a mano e
una pistola in tasca ci unimmo alla colonna
appiedata composta da militari allo
sbando. Speravamo che quanto prima si
creasse un secondo fronte per maggior sicurezza e
per poterci riunire ai nostri Comandi,
Superato il cimitero degli automezzi non
cingolati, continuammo col Cap. Scognamilio a
far parte della colonna che procedeva
verso le retrovie sempre con la speranza di trovare quanto prima una
seconda linea di difesa organizzata per
contenere l'avanzata dell'esercito russo.
Le marce di ripiegamento con militari di altri
Paesi, sbandati come noi, continuavano
giorno dopo giorno. Di notte cercavamo riparo nelle isbe dove si dormiva
in piedi o accovacciati quando si
trovava ancora posto. Eravamo fortunati quando ci potevamo
sistemare intorno ad un pagliaio che bruciava
per sentire un po' di caldo, mangiando
gallette, pane e formaggio che ci eravamo procurati Rossosk. Giungemmo
così nei pressi di un villaggio dove erano accampati militari con i loro
comandi ed alcuni di loro erano fermi per vedere la nostra colonna in
arrivo. Ad un certo punto mi sentii chiamare per nome, era Pierino
Giacosa mio amico e coetaneo di Bra. Ci abbracciammo con affetto. Lui mi
chiedeva di fermarmi con lui mentre io cercavo di convincerlo a
proseguire fino a quando eravamo ancora in forze. Ma dopo un secondo
ferreo abbraccio ci separammo augurandoci buona fortuna. Lui non tornò
in Italia ed io, ogni volta che passavo davanti alla tomba della sua
famiglia, non vedendo la sua foto ricordo ne parlai a suo fratello Carlo
e da allora c'è la sua foto in divisa che tutti possiamo salutare.
La nostra ritirata continuava diventando
sempre più pesante. Subivamo continuamente perdite a causa degli
attacchi delle truppe corazzate, russe; piccoli aerei
giornalmente ci sorvolavano mitragliando e causando morti e feriti.
Avevamo terminato la scorta di viveri e la fame si faceva sentire
insieme alla stanchezza, ma guai a perdere il morale pensando ai nostri
cari a casa, tutto sarebbe crollato.
Per i
morti non c'era più nulla da fare, restavano là nella neve. Cercavamo di
trovare una slitta per i feriti per trasportarli almeno al riparo in
qualche isbà sperando nella pietà di quella brava gente russa. Noi
avevamo fame ed eravamo stanchi, cercavamo cibo ovunque e trovammo anche
un muletto per il traino della slitta per riposarci un po' a turno,
continuando il cammino nella colonna. Prima ancora che mi venisse questa
idea il Gap. Scognamilio mi chiamò da parte e mi chiese di continuare la
ritirata col piccolo gruppo di uomini rimasti ed incoraggiandomi mi
abbracciò e mi salutò con un "Buona Fortuna". Contraccambiai con un po'
di amarezza per la perdita del suo appoggio. Lo vidi prendere un'altra
direzione e pensai che andasse a raggiungere il Comando di Corpo
d'Armata. Non ritornò in Italia e non seppi più nulla di preciso sulla
sua sorte..
Eravamo rimasti un gruppetto di sette uomini,
venutisi a trovare in una colonna di migliaia di militari di nazioni
diverse, ormai sbandati e non più appartenenti a reparti efficienti,
obbligati a prendere iniziative per difendersi da qualsiasi attacco e
tentare di risolvere i tanti problemi che si presentavano.
Come già accennato, ben poco si poteva fare
contro i piccoli aerei che venivano a mitragliarci se non buttarci a
terra a cercare riparo sotto qualche carro, uno sopra l'altro facendo
mucchio e sovente non tutti si rialzavano o non tutti indenni. I carri
armati spuntavano all'improvviso dai boschi e l'unica nostra difesa era
infossarci nella neve ed attendere che fossero abbastanza vicini per non
essere più sotto tiro, poi di corsa saltarci sopra, aprire la torretta e
buttare dentro una bomba a mano. L'impresa era disperata, ma a qualcuno
è riuscita. Anche i carri armati attaccavano, decimavano e se ne
andavano. Mi vengono in mente giornate gelide con bufere di neve che
soffiava contro il nostro volto, trasformando la nostra barba ormai
lunga in tanti candelotti di ghiaccio, abbastanza caratteri siici, ma
molto scomodi e piuttosto freddi. Camminando nella notte apparivano in
lontananza i bagliori dei villaggi in fiamme e quei bagliori su quella
distesa di candida neve, mi portavano alla mente le avventure di Michele
Strogof, il Corriere dello Zar, che avevo letto quando ero ragazzo.
Quel ricordo mi riportò per qualche attimo nella mia casa a Bra, con i
miei cari genitori, mia sorella e i miei fratelli col cuore colmo di
gioia e mi diede più forza e coraggio di lottare per rivederli.
Continuando la ritirata, giungemmo una sera in
un villaggio dove riuscimmo a trovare posto in un'isbà per passare la
notte; io avevo ancora un pezzo di pane e mi accovacciai in un angolo
rosicchiandolo lentamente, era molto duro e non ricordo dove lo avevo
recuperato. Vedo il mio amico Bofano che mi guarda, gli chiedo se
non ha niente da mangiare, mi risponde di no
ed allora divido il mio pezzo con lui; mi
ringrazia ed insieme continuiamo a lottare.
Questo episodio mi ricorda un altro simile avvenuto successivamente e
che racconto
di seguito per meglio far capire in quale
situazione ci trovavamo.
Una
sera, sempre seguendo la colonna, mi ritrovai dove eravamo passati 5/6
giorni
prima e quando ne ebbi la conferma il mio
morale crollò e svaniva la mia speranza di
uscire dalla cerchia.
Mi fermai in un'isbà e mi trovai vicino al
Maresciallo Venturi e cominciammo a
parlare della situazione. Ad un certo punto tirò fuori una borraccia,
bevve qualche sorso e me ne offrì, era
anice che aveva recuperato nel magazzino di Rossosk. Il
calore dell'alcol mi rincuorò, lo ringraziai e
ci facemmo coraggio a vicenda.
Faccio un salto nel tempo arrivando a guerra finita ad una delle adunate
dei reduci
dove mi capitò di incontrare sia il
Maresciallo Venturi che l'amico Bofano ed
insieme ricordammo il bene che mi aveva fatto
il sorso di anice offertomi in quel
difficile momento e l'aiuto del tozzo di pane condiviso quella sera
nell'isbà. Ognuno ricordava quanto
aveva ricevuto, non quanto aveva dato. Così eravamo.
Il
tempo credo non ci abbia cambiati, siamo rimasti come allora, forgiati
dai nostri vecchi genitori che ci hanno insegnato a non toccare neanche
un ago che non sia tuo, perché allora il brigante Del Pero iniziò col
rubare un ago per poi passare a ruberie maggiori fino a quando fu preso
dalla guardia Menghi e condannato all'impiccagione nella piazza della
stazione di Bra. Questi saggi insegnamenti avuti dai cari genitori ci
hanno accompagnato per tutta la vita e se si vuole un mondo in pace
occorre avvicinarsi gli uni agli altri. Così eravamo. Mi sono
allontanato un poco dal racconto, ma ora ritorno a parlare di come
riuscivamo ad alimentarci.
Il problema della fame era comune a tutti i
componenti la colonna, per cui a volte
qualcuno uccideva un cavallo o un mulo che era servito fino ad allora al
trasporto per farne cibo e non morire
di fame. Anche noi con i coltelli
tagliavamo carne da questi poveri animali fedeli e ne
mangiavamo a volte anche cruda per attenuare i
morsi della fame. Andò meglio quando il
nostro gruppo trovò un maialino che fu messo a cuocere in
acqua senza sale (era impossibile trovarne) e
cominciammo a mangiarlo prima che fosse
del tutto cotto trovandolo più gustoso del mulo. Riuscimmo a trovare
anche dei polli che mangiavamo
volentieri arrostendoli sul fuoco. Con la fame non c'era
problema di gusto, si doveva tirare avanti.
Continuando la ritirata lottando contro la
fame e il freddo venimmo a conoscenza che
nella zona di Popowka il gruppo Val Po era
stato attaccato dai Russi perdendo
completamente una Batteria, mentre a Nowa Postolajowka il Gruppo Mondovì
perse tre Batterie 10°-11°-12° con i
loro Capitani e parte della Divisione Cuneense e della
Julia, vennero catturate dalle truppe russe
nella zona di Valuiki ed avviate verso la
prigionia.
La
Divisione Tridentina, ebbe l'ordine di non dirigersi più a Vauiki e
affrontò la
famosa battaglia di Nikolajewka. Si doveva
uscire dalla vallata, attaccando le
postazioni dei Russi sull'altura verso il paese. Con l'enorme massa di
militari che formavano la colonna al
seguito, si riuscì a sfondare (poco con le armi, molto con il
corpo a corpo) lasciando sul terreno
moltissimi morti e feriti.
Anche
noi che eravamo incolonnati al seguito della Divisione Tridentina, senza
alcun
preavviso, partecipammo alla battaglia di
Nikolaiewka e riuscimmo ad uscire dalla
sacca insieme ai reparti della Divisione e a dirigerei verso Schebekino.
Devo dire che non può essermi mancata la protezione della nostra Madonna
dei Fiori, in quanto solo in pochi riuscimmo a venir fuori da quella
vallata senza essere colpiti da chi sull'altura sparava con facilità su
chi tentava di salire.
Mia
sorella aveva portato le foto di noi tre fratelli che ci trovavamo in
zona di guerra al Santuario della Madonna dei Fiori chiedendo la
grazia di farci tornare ed anche con l'aiuto del Buon Gesù tornammo
tutti e tre a casa.
Purtroppo nella battaglia di Nikolajewka il
nostro gruppo si scompose e non ci ritrovammo più insieme, ma
proseguivamo sempre in colonna, ma in punti diversi, Si era usciti dalla
cerchia, ma i mezzi corazzati russi e le truppe russe continuavano a
seminare morte. Si era allo stremo delle forze alcuni camminavano tanti
si trascinavano; ad un certo punto vedo alla mia sinistra un viso che mi
sembrava conosciuto, lo guardo ancora e poi chiedo in dialetto
piemontese: "non sei Renzo Braida?" e lui "tu chi sei?". Sono Giovanni
Battista Fissore rispondo sempre in piemontese: Sei molto dimagrito- mi
dice, ma non rispondo a questa osservazione poiché anch'io prima di
riconoscerlo ho dovuto guardarlo più di una volta. Proseguiamo insieme
il cammino scambiandoci i nostri pensieri sulla situazione del momento e
previsioni future. Mi rimase impresso quanto mi aveva detto in
piemontese - non andiamo più a casa a vedere i nostri- ed in questi
momenti, parole del genere distruggono il morale - per trovare il
coraggio di andare avanti non dovevamo pensare al peggio.
Arrivammo alla periferia di un villaggio di isbe dove i russi si erano
appostati e sparavano a noi che cercavamo riparo correndo da un'isbà ad
un'altra sperando di non essere colpiti e così fino all'uscita del
villaggio.
In questo spostamento persi contatto con Renzo
e non lo vidi più, però ero convinto che anche lui fosse passato come
quasi tutti noi.
Arrivammo alcuni giorni dopo a Romny, villaggio con stazione
ferroviaria, dove
riuscii a salire su una tradotta di quattro
vagoni che ci portò a Leopoli (allora polacca) e qui in un ospedale dove
ricevemmo il primo piatto caldo che consisteva in una
minestra di miglio.
Restammo alcuni giorni in ospedale e poi quelli di noi in condizioni
fisiche migliori,fummo trasferiti in Italia nella zona di Dobbiaco dove
restammo per un po' di giorni
in osservazione. Riuscii così a mandare una
cartolina ai miei che da tanto tempo non avevano mie
notizie scrivendo solo i saluti ed un
arrivederci a presto. Non potevo
raccontare poco, avevo tanto da dire, ma bastò per far gioire prima mio
padre, il quale ogni mattina andava alla posta per vedere se erano
arrivate mie notizie, poi il resto
della famiglia. Terminato questo periodo ci mandarono a casa con
una licenza di 30 giorni.
Mi ritrovai a casa con i miei cari genitori,
fratelli e sorella e tanti amici che venivano
a festeggiare il mio ritorno, ma non mi riuscì
subito di condividere la loro gioia perché
la mia mente era ancora affollata dalle
orrende scene di guerra, dai mesi di ritirata
dove ci trascinavamo distrutti dalla fame e
dal freddo, morti sparsi sul cammino e
volti di amici non più ritornati. Così
dopo qualche ora che ero a festeggiare il mio ritorno, sentii la
necessità di uscire di
casa, prendere un sentiero di campagna e
camminare nel silenzio della natura in
mezzo ad alberi e campi di grano per attutire il contrasto che si
era formato nella mia mente tra il
dolore passato e la gioia presente.
Non
mi è facile rendere chiaramente l'idea di come ci si sente ed auguro a
tutti che in
futuro nessuno abbia più a provare tanta
sofferenza.
Terminata la licenza, rientrammo a Cuneo nella nostra caserma e la
Divisione Cuneense venne ricostituita.
---
Un Eroe dimenticato: Alpino Agostino Guaraldi, a cura di Mario Gallotta.
Molti alpini conoscono il nome di un
paese nel quale, grazie all’A.N.A., è stata costruita ex novo - dopo il
terremoto - la scuola materna (ora intitolata al “mitico” Don Enelio
Franzoni). Si tratta di Casumaro, frazione del comune di Cento, in
provincia di Ferrara.
Pochi sanno, invece, che Casumaro diede
i natali ad un grande alpino di cui la nostra associazione può andare
fiera : il Ten. Col. Agostino Guaraldi, caduto in Russia mentre
comandava il Battaglione “Dronero”.
Nato nel 1898 si arruolò, non ancora
diciassettenne, nel Corpo Nazionale Volontari Ciclisti . Dopo lo
scioglimento del reparto chiese ed ottenne di essere assegnato agli
Alpini. Destinato al battaglione “Val Cordevole” fu proposto per il
corso ufficiali di complemento. Promosso Sottotenente si ritrovò al
comando di una sezione mitragliatrici e poco dopo venne decorato di
Croce di Guerra al Valor Militare per una brillante azione svoltasi
sulla Marmolada. Con il grado di Tenente fu assegnato al battaglione
“Belluno”, dislocato a Mezzocorona , da dove rientrò al deposito del 7°
Alpini. Congedato nel 1920, pochi giorni dopo si presentò come
volontario per le operazioni in Albania, alle quali prende parte nei
ranghi al 2° Alpini. Rientrato in patria a fine agosto venne ricollocato
in congedo fino a che, nel 1924, rientrò nel Regio Esercito come
ufficiale in servizio permanente effettivo. Dopo un’esperienza in
Cirenaica, che gli consentì di meritare un’altra Croce di Guerra al
V.M., ottenne la promozione a Capitano e partecipò alla campagna
d’Etiopia con la “Pusteria”, meritando un encomio solenne. Rientrato in
Italia ebbe modo di mettere in luce le sue doti di alpinista
conquistando il titolo di Accademico Militare. Con tale viatico fu
destinato alla Scuola Centrale Militare di Alpinismo di Aosta dove
assunse il comando della compagnia alpieri. Il 27 luglio 1938 guidò
un’audacissima ascensione al Monte Cervino portando in cima 80 uomini
con apparecchi radio, mitragliatrici e mortai. La notizia dell’impresa,
ricordata ancora oggi come una delle più ardite ascensioni militari,
ebbe notevole risalto anche sulle pagine de “L’ALPINO”, che pubblicò un
articolo altamente elogiativo nel numero del 15 agosto 1938.
Ma i venti di guerra che soffiavano
sull’Europa lo distolsero dalle attività alpinistiche. Comandante dei
Battaglioni “Val Stura” e “Val Maira” venne successivamente assegnato al
“Dronero”, con il quale partì per la Grecia. mantenendone il comando
sino al termine della sua esistenza.Sul fronte greco-albanese non rimase certo inattivo : conquistò infatti una Medaglia di Bronzo al V.M. e meritò un encomio dal Gen. Battisti.
Guaraldi non era tipo da restare con le mani in mano. Come ricorda il Caporal Maggiore Giorgio Corbia, che lo ebbe come comandante di battaglione “ aveva un’anima e un cuore grande, pur nel suo carattere chiuso e nel suo portamento fiero…Pur potendo godere di un vitto migliore mangiava lo stesso rancio degli alpini e nella gavetta…Mai sentimmo un suo lamento... Sempre il primo in ogni assalto, quando non ravvisava la possibilità di riuscita di un’operazione chiamava il Colonnello al telefono e gli diceva : “Vieni tu con i tuoi leccabuste a prendere quella posizione : io i miei uomini al macello non ce li mando!”…Amava la Patria più di ogni altra cosa al mondo e si batteva contro tutte le ingiustizie, da qualunque parte provenissero”.
Dalla Grecia alla Russia il passo fu breve.
Scatenatasi l’offensiva dei sovietici , gli fu affidato il comando di tutto il 2° Reggimento Alpini e dell’intera colonna d’avanguardia. Ma lasciamo la parola a Giuseppe Martelli (www.noialpini.it/guaraldi_agostino.htm) che ha ricostruito le vicende degli ultimi giorni vissuti da Guaraldi. ”Il 27 gennaio a Waluiki, circondato da forze soverchianti e dopo aspri combattimenti nei quali rimane ferito al ventre, conscio dell’impari lotta e con l’intento di offrire ai suoi uomini una qualche possibilità di salvezza, è costretto alla resa. L’odissea della sua prigionia, fra indicibili sofferenze aggravate dalla ferita non adeguatamente curata, è stata oggi ritrovata nella testimonianza di un cappellano militare che ne ha condiviso quei tristi giorni.
Da questa memoria si apprende che è deceduto nella notte del 5 marzo 1943 in località non identificata, nel vagone di un treno adibito al trasporto dei prigionieri verso il lontano Uzbekistan. Ricordando il trattamento bestiale nei confronti di quei poveri uomini… non deve stupire la drammatica decisione riservata alla sua salma, che può apparire oggi crudele. Nell’oscurità della notte mentre il treno è in viaggio, dopo un’altra preghiera, il corpo viene gettato nella scarpata ferroviaria”.
Così si concluse l’umana avventura di Agostino Guaraldi da Casumaro, figlio della pianura ma amante della montagna, piccolo di statura ma grande nel cuore e nell’anima.
Per il suo eroico comportamento gli venne conferita conferita la Medaglia d’Argento “alla memoria”, che si aggiunse alla promozione - datata 3 giugno 1943 e mai giunta a conoscenza di Guaraldi - al grado di Tenente Colonnello.
Ma la Patria, una volta tanto, non si dimostrò immemore e nel corso di un’imponente cerimonia militare, svoltasi a Bologna il 2 giugno 1957, i familiari ebbero la soddisfazione di ritirare la meritata medaglia, recante una motivazione che vale la pena di rileggere :
“Comandante di battaglione alpino di provato valore, nel corso di una lunga e sanguinosa battaglia difensiva, mentre il grosso della Grande Unità di cui faceva parte era impegnato frontalmente in aspra lotta sosteneva, alla testa dei suoi reparti, duri combattimenti di retroguardia. Ripetutamente accerchiato riusciva sempre, con indomito valore, a forzare la stretta del nemico soverchiante fino a che, ferito e sopraffatto dal nemico, veniva catturato.
Decedeva poi in prigionia a seguito delle ferite riportate in combattimento” – Fronte russo, 17-27gennaio 1943.
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