Borgo San Dalmazzo, Cuneo, Torino, Milano, Brescia,
Verona, Gorizia, Passo di Piedicolle, Villaco, Monaco, Dresda, Varsavia,
Kiev, arrivo a Izjum - tot. 3500 chilometri.
Nessuno, penso, meglio del superstite Odoardo Ascari,
ufficiale del 1° Alpini, Battaglione Mondovì può meglio descrivere il
viaggio di una tradotta di nostri alpini e come furono i primi contatti
con i nostri alleati i tedeschi…:
“Si
giunse così alla partenza dalla stazione di Mondovì Breo: ci avevano
detto che la destinazione era il Caucaso: eravamo alpini e dovevamo
conseguentemente combattere in montagna, e proprio per questo avevamo
centinaia di muli.
La partenza avvenne in un pomeriggio di fine luglio, in una atmosfera
del tutto particolare, a dimostrazione della quale valga questo
episodio.
Molti alpini abitavano nelle immediate vicinanze di Mondovì, sicché le
loro madri erano venute a salutarli alla stazione.
Una di loro, mentre stavamo caricando i muli sui vagoni con grande
fatica, mi avvicinò e, saputo che ero io il superiore di suo figlio, mi
consegnò, quasi abbracciandomi, un pacco che conteneva dodici uova:
molte, in quel tempo di razionamento. Poi mi strinse la mano, quasi a
consacrare un patto, e si allontanò frenando le lacrime.
C'era, in quell'incontro, qualcosa di commovente e di grottesco, ma
ricordo bene che, stringendo quella mano, io sentii in modo non preciso,
ma proprio per questo ancora più vincolante, che aveva siglato un patto
quasi religioso che non avrei mai potuto tradire. Perché vi sono parole
non dette e, soprattutto, non scritte, più vincolanti di quelle scritte.
E quando, oggi, assisto alle manifestazioni filmate di dolori gridati,
avverto, anche in questo, la riprova di appartenere ad un mondo diverso
e perduto.
Ma torniamo a noi. Il treno che ci portava al fronte russo — raggiunta
Verona— impiegò poco tempo a varcare il confine con l'Austria e così, il
giorno stesso, ci trovammo a contatto — per così dire — con austriaci e
tedeschi.
Tutti, senza differenza alcuna, lungo il tragitto e durante le soste
nelle stazioni, ci guardavano con indifferenza, come se la distanza che
ci separava non fosse colmabile dai gesti e dalle parole.
Dal canto loro, gli alpini, nei confronti dei tedeschi, avevano una
posizione che si potrebbe definire di attesa, nutrita da una profonda
diffidenza che veniva da lontano e che, in quella indifferenza, trovava
un crescente alimento.
Non ho ricordi particolari del viaggio attraverso l'Austria e la
Germania: ma, arrivati nella Polonia occupata, che attraversammo da
ovest ad est, capimmo tutto, grazie a un episodio chiave.
Durante il viaggio, gli alpini consumavano ancora le provviste che si
erano portati da casa: per loro, che vivevano tutti sulla terra, il
razionamento era sempre stato un fatto che non li riguardava. E perciò,
nei giorni del viaggio, le scatolette di carne e le gallette passate
dalla naia venivano messe negli zaini come provvista.
Un certo giorno dell'agosto 1942, varcato il confine tra Germania e
Polonia, arrivammo a una piccola stazione, che però aveva un numero
enorme di binari.
Il nostro treno fu fermato e ci fu detto che, poiché era in atto, in
quei giorni, una grande offensiva tedesca sul fronte centrale, dovevamo
dare la precedenza ai convogli tedeschi che alimentavano l'offensiva in
corso.
Più di mille alpini erano costretti a stare accanto ai vagoni e non
potevano allontanarsi perché, come aveva detto il Bahnofoffizier, il
nostro treno poteva partire "tra mezz'ora o fra dieci giorni". Il nome
vero della stazione è ancora vivo nel nostro ricordo: "Merdopoli".
Il lezzo e il caldo — sì, anche il caldo — erano letteralmente
insopportabili.
Perciò, dopo un giorno di attesa, l'ufficiale di grado più elevato si
recò dal tedesco e gli chiese, dal momento che il treno non partiva, di
"smerdare" la stazione o di darci i mezzi per farlo: l'altro rispose che
avrebbe provveduto in breve tempo.
Dopo
qualche ora apparvero una decina di ragazze con la stella di David —
guidate e sorvegliate da un giovane in divisa tedesca sui vent'anni,
armato di tutto punto — che spingevano altrettante carriole con la ruota
di ferro e che cominciarono il loro lavoro in un silenzio attonito: gli
alpini tacquero tutti, come di fronte a una rivelazione terribile.
All'altezza del penultimo vagone, una delle ragazze che — chissà come e
dove — aveva appreso qualche parola di italiano — si rivolse agli alpini
dicendo ad alta voce: "Viva l'Italia, viva il Duce, viva il Re, dare
galletta".
Gli alpini gettarono allora verso di lei tre o quattro pacchi di
gallette, avvolte in una carta bianchissima: la ragazza li raccolse e li
posò sulla stessa carretta nella quale riponeva lo sterco.
A quel punto, il giovane che scortava la squadra brandì il fucile dalla
parte della canna e colpì, con estrema violenza, col calcio del grosso
fucile, la ragazza, che stramazzò al suolo.
Gli alpini non dissero nulla, ma spararono subito: il ragazzo in divisa
tedesca — che poi risultò essere un polacco — fu ridotto a un colabrodo,
raggiunto da più di venti pallottole.
Al Bahnofoffizier che protestava, una nostra "penna bianca" — un
maggiore — mise la pistola in bocca, e il freddo della canna lo persuase
che era meglio non insistere.
Il caporalmaggiore Giobatta Viale mi venne vicino e mi chiese in
dialetto piemontese: "A-son coj-li i nòstri
amis?",
cioè: "Sono quelli lì i nostri amici?".
Comunque, l'episodio fu determinante per tutti:
prima ancora di arrivare al fronte russo, i rapporti coi tedeschi erano
totalmente naufragati perché gli alpini avevano la netta sensazione di
appartenere a un altro mondo: e l'alleanza "ufficiale" con loro
diventava, a suo modo, un'astrazione…”.
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