(Riproduzione della pagina 16 del numero unico «Russia»)
(Riproduzione della pagina 7 del
numero unico «Russia»)
EDOARDO D'ONOFRIO
D'Onofrio
durante la sua permanenza nei campi di concentramento di Oranki e di
Skit:
1)
assistito dal FIAMMENGHI e alla presenza di un Ufficiale dell'N.K.V.D.
ha sottoposto ad estenuanti interrogatori dei prigionieri italiani
detenuti in quei campi;
2)
non si trattava di semplici conversazioni politiche, come
ipocritamente il D’ONOFRIO vorrebbe far credere, ma di veri e propri
interrogatori di carattere politico che spesso duravano delle ore e
durante i quali veniva messo a verbale quanto il prigioniero
rispondeva;
3)
immediatamente dopo la visita di D'Onofrio in quei campì alcuni dei
prigionieri italiani che in quei giorni erano stati sottoposti ad
interrogatorio furono allontanati e rinchiusi in campi di punizione
e ancora oggi alcuni sono trattenuti nei campi di concentramento di
Kiev;
4)
simili procedimenti avevano il duplice scopo di far crollare prima
con lusinghe e poi con esplicite minacce (non ritornerete a casa;
lei non conosce la Siberia? allusioni alla famiglia, carcere e
simili) la resistenza fisica e morale di questi uomini ridotti dalla
fame, dalle malattie, dai maltrattamenti a cadaveri viventi e
guadagnare l’adesione degli altri prigionieri intimoriti
dall’esempio della sorte toccata a questi.
DOMENICO DAL TOSO - LUIGI AVALLI - IVO EMETT - ecc
IL PROCESSO
Aveva
scritto D'Onofrio: «I russi rispettavano come prigionieri di
guerra i soldati italiani, non li fucilavano, né li facevano a
pezzetti, anche se in camicia nera». «Non è vero!». Rispondeva
Giannetto Palmas e a dimostrazione citava un episodio di cui era
stato testimone oculare il 19 gennaio del 1943 a Valuikj: «Dei
45 uomini del comando del 61° Autogruppo, all'arrivo nel paese
delle orde cosacche solo una decina riuscirono a sganciarsi e a
ritirarsi su Karkoff. Trenta, fra cui il maggiore comandante il
Gruppo, furono catturati dai cosacchi, quindi spogliati e
fucilati presso i loro automezzi.... Ricordo ancora che durante
le marce verso i campi di smistamento, il 26 gennaio 1943 (35°
sotto zero), un maggiore, già derubato degli indumenti
invernali, per non aver ubbidito immediatamente all'ordine di
consegnare le mutande che indossava, fu spogliato, bastonato a
morte e finito con una raffica di mitra... E che dire poi del
sistema abituale della scorta che sparava su tutti quelli che,
sfiniti dalla fatica e dalla fame, non avevano la forza di
proseguire il cammino, o su quelli che si allontanavano dalle
file in cerca di cibo o che si avvicinavano ai pozzi per bere?».
|
«Intollerabile beffa» |
Allora (ed
eravamo alla fine del 1942) potevamo ancora dichiarare «la buona
accoglienza e il trattamento fattoci da parte dell’autorità
russa e dai medici russi» in quantochè solo un tenente
cappellano e quattro graduati infermieri erano stati fucilati
(20-21 dicembre 1942) e lo strumentario chirurgico e i
medicinali non ci erano stati ancora sottratti».
«...
È noto che molti feriti durante la precipitosa ritirata furono
abbandonati a Kantemirovka ma non è a tutti noto che alcuni
medici e soldati di sanità restarono volontariamente accanto ai
feriti affrontando la prigionia. Al cap. med. Mulazzi gravemente
ammalato di tifo addominale, fu fatta firmare la dichiarazione
in stato di incoscienza e delirio; dopo qualche settimana,
convalescente del tifo, decedette in cachessia..... A sua volta
il ten. Pastore decedette in altro campo dopo lunghe marce di
trasferimento nonostante le ferite non si fossero ancora
rimarginate.... L’elenco dei ricoverati, l’elenco dei morti e il
registro operatorio mi furono sottratti dalle autorità russe».
|
La
missione di un ufficiale medico |
L’ultima
parola al ten. Pugliese il quale al D'Onofrio che lo accusava di
essere «proditoriamente entrato in casa sovietica da ladro e da
brigante» rispondeva che «... quando facevo esporre fuori
dell’infermeria la bandiera della CRI era un accorrere di gente che
veniva a far medicare le proprie piaghe, a chiedere medicine e farsi
visitare. Molte volte mi sono allontanato dal reparto per recarmi in
qualche isba spersa nella steppa a visitare qualche civile
gravemente ammalato. Questa mia opera mi valse il soprannome di
«umanitario».
E
concludeva: «Ma ora voglia essere cosi gentile da togliermi una
curiosità: perché i russi si affannavano ad estorcere dichiarazioni
ed attestati «di benemerenza?». Forse erano consci di essere in
difetto e volevano crearsi una documentazione che li scagionasse?
Perché quell'attestato di benemerenza come molti altri del genere,
rilasciato alle autorità sovietiche e raccolto da ufficiali russi
nel 1942 a Kantemirovka si trova ora in mano sua? Forse lei è stato
nominato avvocato difensore dello Stato sovietico?».
Ma
questi interrogativi rimasero senza risposta.
Qualche
giorno più tardi usciva il numero unico «Russia» e il sen. Edoardo
D'Onofrio si querelava
I
PROTAGONISTI DEL PROCESSO
Tribunale penale di Roma - Sez. X(1) - Aula
della 1a Sezione della Corte d'Assise. |
Presidente del Collegio:(2) |
DOTT.
VINCENZO CARPANZANO |
Pubblico Ministero:(3) |
DOTT.
PIETRO MANCA |
I COMUNISTI: |
|
Querelante:(4) |
SEN.
EDOARDO D'ONOFRIO |
Rappresentanti della Parte Civile:(5) |
Avv.
MARIO PAONE
Avv. PROF. GIUSEPPE SOTGIU |
I REDUCI DI RUSSIA: |
|
Imputati: |
UGO
GRAIONI, direttore
GIORGIO PITTALUGA, redattore responsabile
IVO EMETT
DOMENICO DAL TOSO
LUIGI AVALLI |
Collegio di difesa: |
Avv.
MASTINO DEL RIO
Avv. RINALDO TADDEI |
Imputazione: |
Diffamazione a mezzo stampa di cui agli art. 595 cod.
pen. e 13 l. 8 febbraio 1948 n. 47. |
Foglio
incriminato: |
«Russia», numero unico, aprile 1948, edito a cura
dell’U. N. I. R. R. (Associazione Nazionale Italiana
Reduci di Russia) |
«ENTRA
IL TRIBUNALE» |
Palazzo
di Giustizia di Roma - Lunedì 16 maggio 1949. - La tragedia dei
nostri soldati in Russia aveva bisogno di una cornice più vasta
che non fosse la solita, piccola aula dove quotidianamente i
magistrati amministrano giustizia. Per questo, forse, è stato
deciso che il giudizio si tenga nell’aula della 1a Sezione della
Corte d'Assise; la stessa, per la cronaca, nella quale per sette
mesi si svolse il processo a carico dell’ex Maresciallo
d'Italia, Rodolfo Graziani.
Ore
9,10 precise: entra il tribunale. Tutti gli imputati sono
presenti al loro banco. D'Onofrio, invece, siede ad un tavolo
situato al centro del pretorio. La parte dell'aula riservata al
pubblico è affollatissima. Curiosità? No! Non è la morbosa
curiosità che porta le folle sotto le gabbie e i plotoni di
esecuzione. Sono reduci che vogliono rivivere le sofferenze
trascorse, attraverso il racconto, che qui dentro si andrà
facendo, della loro triste odissea; sono soldati che sperano di
ritrovare il commilitone perduto; sono spose, madri, sorelle,
fidanzate, amici di chi non è più tornato; è una folla sulla
quale il tempo è passato senza riuscire a lenire dolori e
sofferenze. È l'Italia che piange ì suoi figli perduti e si erge
severa e solenne contro i traditori della patria e della
civiltà.
|
«L’udienza è aperta» |
Breve
e precisa, la messa a punto del «responsabile» del numero unico
«Russia», Giorgio Pittaluga, dà il via al dibattito, dopo che il
Presidente ha dichiaralo aperta l'udienza. Egli permise la
pubblicazione dell’articolo riguardante il sen. D'Onofrio perché
ebbe assicurazione dagli autori stessi che tutti i fatti
specificati nello scritto erano perfettamente rispondenti alla
realtà. Si trattava di un riferimento obiettivo senza alcuna
intenzione diffamatoria, fatto col puro e semplice animus
narrandi.
Ugo
Graioni, il direttore del numero unico, ne dà conferma
aggiungendo che molti reduci dalla Russia con i quali ebbe
occasione di parlare gli ribadirono l'esattezza dei fatti
riassunti nello scritto.
Il
primo a narrare quello che accadde ai nostri soldati è
l'imputato Domenico Dal Toso, tenente del IV artiglieria alpina
della Divisione Cuneense, caduto prigioniero nel gennaio del
1943, trasferito al campo di Krinovaia con una lunga, estenuante
marcia forzata.
Dal
Toso: — «Partimmo in tremila, arrivammo in millecinquecento. Ci
nutrivamo di semi di girasole. Avevamo avuto come viveri per il
viaggio, soltanto un filone di pane da 500 grammi. Giunti nel
campo di Krinovaia venimmo distribuiti a seconda del rango, in
alcuni box simili a quelli dove, nelle scuderie, si rinchiudono
i cavalli: in ognuno dei quali eravamo stipati in ventisei
persone. Lo spazio era così limitato che era impossibile perfino
sdraiarsi. Vi rimanemmo per quattro giorni, senza acqua, prima
che ci fosse acconsentito di attingerne da un pozzo. Ci legavamo
le gavette alla cintura e ci si spenzolava giù per poter
arrivare fino in fondo. Molti, nel tentativo, caddero nell'acqua
ed annegarono. L'acqua s'inquinò e non potemmo più berne.
|
«Scene
di cannibalismo» |
|
«Carri
bestiame» |
Dal
Toso: — Lasciammo Krinovaia in 400 ufficiali. Giungemmo ad
Oranki in 290. Gli altri erano morti durante il trasferimento
compiuto nell’interno di carri bestiame e senza alcun cibo. Nel
nuovo campo scoppiò una violenta epidemia di tifo petecchiale.
Ma non fu dato altro medicamento che del permanganato. Quando
fui trasferito al campoconvalescenziario di Skit, pesavo
soltanto 39 chili.
Durante
la permanenza ad Oranki venne per la prima volta il Fiammenghi
il quale tenne numerose conferenze ai prigionieri.
Presidente:
— Cosa vi disse in particolare il Fiammenghi?
Dal
Toso: — Voleva conoscere la nostra opinione politica. Egli
teneva ad informarci che in Italia le cose andavano molto male.
Poiché il Fiammenghi fece capire chiaramente che a coloro i
quali si fossero dichiarati antifascisti sarebbe stato concesso
un miglioramento del rancio, qualcuno aderì alle nuove idee di
cui veniva fatta ampia propaganda.
È
chiaro che, secondo la prassi del partito bolscevico, per
antifascismo doveva intendersi, adesione alle dottrine marxiste.
L'imputato narra poi come alla fine di luglio arrivò il signor
D'Onofrio, il quale radunò gli ufficiali italiani proponendo
loro che sottoscrivessero un appello al popolo italiano di
incitamento ad abbattere il governo Badoglio e la monarchia.
In
Italia, come è noto, si era verificato il colpo di stato che
aveva rovesciato il governo fascista il 25 luglio 1943.
A
domanda del presidente, Dal Toso precisa che il signor
D'Onofrio, comunista, si qualificò di professione «cospiratore».
Presidente:
— Come, come?...
Dal
Toso: — Sì, sì, professione «cospiratore». Così ci disse. Egli
era accompagnato da un ufficiale della polizia russa. Prima ci
parlò a lungo della patria lontana, delle nostre case, delle
famiglie, provocando la comprensibile commozione dei presenti.
Poi ritornò per farci firmare il famoso appello al popolo. Il
cap. Magnani, che era a capo della nostra comunità, rispose a
nome di tutti che i soldati e gli ufficiali italiani erano
legati da un giuramento al Re e che quindi mai avrebbero potuto
firmare un appello del genere. D'Onofrio andò su tutte le furie
e la sua reazione fu immediata. Il capitano Magnani fu chiamato
dal D'Onofrio ed ebbe con lui, presente un capitano russo, un
colloquio durato due ore Al termine di esso il Magnani aveva il
viso stravolto. Il giorno successivo veniva trasferito in altro
campo e da allora non s’è saputo più nulla di lui se non che fu
rinchiuso in un campo di punizione. D'Onofrio aveva detto: «Al
capitano Magnani ci penso io».
|
«Non
rivedrai tua madre!» |
Come
tutti gli altri anche l'imputato dovette subire un
interrogatorio, alla presenza di un ufficiale russo, il quale
annotava tutte le risposte, al termine del quale il D'Onofrio lo
minacciò di non riveder più sua madre se avesse coltivato certe
idee di italianità perché in Russia ognuno era controllato e
dalla Russia non era facile tornare indietro... In Russia vi
erano regioni ancora più fredde, con chiaro riferimento alla
deportazione in Siberia.
La
lunga deposizione del primo imputato è finita: Dal Toso ha
parlato con voce bassa che tradiva una visibile commozione
interiore.
|
Infernali campi di concentramento |
Subito
dopo viene introdotto il secondo reduce querelato. È il tenente
di fanteria della divisione Sforzesca, Luigi Avalli, fatto
prigioniero nell’agosto 1942 in Russia. È tutto un racconto di
sofferenze senza nome che si riassumono nel desiderio più volte
espresso dai prigionieri di essere fucilati piuttosto di
continuare a vivere in quegli infernali campi di concentramento.
Krinovaja - Minciurinsk - Tamboff: nessuno ne parla eppure erano
simili e forse anche peggiori di Meidanek - Buchenwald -
Mathausen che tutto il mondo conosce! L'imputato narra le
pressioni politiche cui i prigionieri erano sottoposti, con le
continue conferenze, le domande, gli interrogatori del
Fiammenghi e del D'Onofrio, che richiamavano all'ordine chiunque
osasse esprimere opinioni sfavorevoli sul regime sovietico.
Con
questa deposizione s’è chiusa la prima udienza. L'atmosfera
nell’aula è grave, pesante. Il racconto dei reduci ha lasciato
in tutti una penosa impressione.
Don
Enrico Donati, Giuseppe Fanin, il persicetano, ... |
Il
padre di un disperso in Russia scrive all’on. Togliatti... |
On. Togliatti,
con
tutto il rispetto per tutte le ideologie, con tutto il rispetto
per Lei che ho sempre creduto un idealista e di elevata cultura,
mi fa veramente pena apprendere dai giornali le discussioni sui
prigionieri in Russia, sui nostri figli dei quali non ne
sappiamo nulla (ho un unico figlio dato per morto dai suoi
Colleghi rientrati); io credo che sarebbe buona cosa che Lei,
quale massimo esponente di un esecutivo che dipende dalla
Russia, si facesse promotore di una spedizione da Lei capeggiata
e composta dai suoi On.li Colleghi Longo, Terracini, Di
Vittorio, Pajetta, ecc. e prendere congedo di sei mesi dalla
Camera e dal Senato recandovi in Russia ad esperire tutte quelle
pratiche che nessuno meglio di Voi, che siete di casa, può fare.
Al vostro ritorno, con risultati positivi e veritieri, tutti gli
italiani di ogni idea e colore Vi accoglieranno a bandiere
spiegate, anche rosse se Vi farà piacere e Vi porteranno in
trionfo.
Questo
è il V/ dovere, dopo la strada sarà aperta a tutte le
discussioni politiche che vorrete.
ALESSANDRO
MALERBA di Milano
|
La
risposta del leader del P.C.I. |
Roma,
li 11 giugno 1948
Egregio
Signore,
il
tono della sua lettera mi fa supporre in Lei la buonafede. Mi
rincresce però che questa non le abbia impedito di cadere
vittima di una indegna speculazione, ordita sul sentimento di
tanti italiani, sia dal governo che dal partito democristiano.
Per quello che a me risulta (dallo spoglio della stampa
sovietica) il governo sovietico ha pubblicato la lista numerica
dei sopravvissuti alla fine della guerra e le date esatte di
consegna di tutti i sopravvissuti (con la eccezione credo di una
ventina) alle autorità di frontiera anglo-americane. Il Governo
italiano aveva il dovere di far riprodurre in Italia questo
documento, facendo inoltre conoscere ciò che tutti i competenti
sanno, e cioè che è assurdo anche solo pensare alla più lontana
possibilità di esistenza di «dispersi sopravvissuti» perché
l'equipaggiamento di quei poveri ufficiali e soldati italiani
non consentiva la sopravvivenza in quelle condizioni di
battaglia e di clima. Questo è il delitto che oggi si sta
commettendo; i responsabili diretti del massacro di quei giovani
(Messe e gli altri, non esclusi i vescovi e i dirigenti di
Azione Cattolica che benedissero la spedizione criminale contro
la Russia) si servono del male da essi commesso per seminare
odio e discordie tra i popoli e nel nostro popolo.
La
mia opinione, del tutto oggettiva e spassionata, è che alle
autorità sovietiche nulla è da rimproverarsi. Nelle condizioni
in cui erano, hanno fatto quanto dovevano. Purtroppo noi
italiani ci troveremmo molto imbarazzati se quelle autorità ci
chiedessero conto dei prigionieri russi fatti dalle truppe
italiane. Lo sa che non ne è tornato in Russia nemmeno uno?
Messe e gli altri generali italiani li consegnavano ai tedeschi
che li passavano ai forni crematori. E sono proprio questi
generali che oggi strillano e fanno campagne in nome della
civiltà. Mi scusi lo sfogo sincero. Cordialmente
PALMIRO
TOGLIATTI
Comunicati dell’Ambasciata sovietica a Roma |
La
lettera veniva resa di pubblica ragione attraverso la
pubblicazione fattane dalla rivista Oggi nel numero in
data 2 giugno 1948, uscito il 21 s. m. con commento di Arnaldo
Cappellini, giornalista, già corrispondente di guerra in Russia
al seguito delle truppe italiane.
Della
lettera di Togliatti colpiscono prima facie numerose
contraddizioni. Le cifre parlano chiaro. I dati ufficiali danno
84.820 dispersi sui 221.000 soldati e 7.000 ufficiali
partecipanti alla spedizione italiana in Russia.
L’ambasciata
sovietica a Roma nell’agosto 1945 comunicò al nostro Ministero
degli Affari Esteri che il suo governo deteneva soltanto 19.640
prigionieri italiani. Gli altri, secondo la ben nota tesi
comunista, sarebbero morti nei combattimenti o nella tragica
ritirata, non dunque per colpa dei maltrattamenti subiti nei
campi di concentramento russi. Poco tempo dopo la stessa
ambasciata dichiarava che la Russia avrebbe restituito 21.193 e
poi ancora 21.065 prigionieri, in una notificazione diretta
all'allora Ministro degli Esteri Pietro Nenni. In realtà i
reduci sono soltanto 12.513. Anche a voler prendere per buone le
comunicazioni ufficiali del governo bolscevico, si può
legittimamente chiedere all'on. Togliatti: e gli altri dove
sono? Altro che eccezione di «una ventina...». Lo stesso
Togliatti, nel 1943, quando le vicende della guerra lo
dispensavano da una immediata documentazione delle sue tirate
propagandistiche, parlando da Radio Mosca, assicurava le
famiglie italiane che oltre centomila prigionieri erano sani e
salvi in mani russe e al termine del conflitto sarebbero tornati
liberi alle loro case. Le stesse cose si leggevano pressappoco a
pag. 250 del libro «Discorsi agli Italiani» dì Mario Correnti,
alias Ercole Ercoli, alias Palmiro Togliatti, pubblicati nello
stesso anno per le edizioni in lingue estere a Mosca. Si ricordi
inoltre che in corso di causa e risultato che il settimanale
comunista «L'Alba», diffuso nei campi di concentramento, aveva
annuncialo che il numero dei soldati italiani catturati era di
83.000, secondo i bollettini di guerra sovietici.
|
L’equipaggiamento dell’A.R.M.I.R. |
Arnaldo
Cappellini, nel suo libro «Inchiesta sui dispersi in Russia»,
edito dall'Istituto Tipografico Editoriale di Milano per la
collana «Cronache», a proposito del nostro
equipaggiamento e della sua influenza sull'alta percentuale
delle perdite, secondo la opinione di parte comunista, scrive:
—
L'«equipaggiamento di quei poveri ufficiai e soldati», cioè, che
secondo quanto afferma Togliatti, avrebbe avuto parte decisiva,
se effettivamente non era perfetto, non doveva però neanche
essere pessimo, dato il numero considerevole di uomini che, con
quello stesso equipaggiamento, marciando e combattendo, senza
poter contare su una organizzazione logistica di retrovia che da
parte nostra più non esisteva, sono pur usciti dalle sacche e
sono tornati in Italia. Ci sono stati reparti che hanno marciato
in queste condizioni per diecine di giorni e per mille e più
chilometri, con una percentuale di perdite infinitamente
inferiore — qualcuno quasi nulle — a quelle degli ottantamila
prigionieri ridotti a circa diecimila. —
|
Prigionieri russi in Italia |
Riguardo
alla sorte dei prigionieri russi in mani italiane, la quale, secondo
Togliatti, legittimerebbe una ritorsione contro i nostri
prigionieri, la sfacciata menzogna del capo comunista è smentita da
innumerevoli e autentiche testimonianze contrarie.
Nell’impossibilità
di organizzare campi di concentramento nelle immediate vicinanze del
fronte, prigionieri russi furono inviati in zone controllate dai
tedeschi, in quanto la stessa 8a armata italiana faceva parte del
più vasto schieramento germanico. Ma essi non furono affatto gettati
dai nazisti nei forni crematoti, sorte che toccò invece a tanti
nostri internati e perseguitati politici, soprattutto dopo l'8
settembre 1943. Tutti gli italiani, durante l'invasione tedesca
hanno avuto modo di constatare come prigionieri russi lavoravano al
seguito delle truppe teutoniche. Altre volte invece varie centinaia
di prigionieri russi, catturati dall’80° reggimento, non raggiunsero
i campi di concentramento.
—
Disarmati, venivano lasciati andare liberi verso ovest — come ebbe a
dichiarare al Cappellini personalmente il col. Chiaramonti — senza
scorta, sicché potevano disperdersi per città e villaggi ove si
mettevano a lavorare, ben lieti che la guerra per loro fosse
finita...
—
Infiniti episodi potrei narrare che farebbero ricredere l'on.
Togliatti se è in buona fede, circa il modo come il CSIR si comportò
in quel periodo veramente epico della campagna, e come mai, nemmeno
nelle situazioni più drammatiche, la popolazione commise verso noi
italiani il minimo atto di ostilità, appunto in virtù del nostro
modo di agire. È penoso oggi dover constatare come un uomo di tanta
responsabilità, nel rispondere alla voce angosciata di un padre, non
avendo argomenti solidi da far valere, tenti di gettare una manata
di fango su questi soldati che altro torto non hanno che quello di
non aver derogato alle leggi dell'onore militare. —
Di
fronte a certe maligne insinuazioni della stampa di estrema sinistra
la «Voce Adriatica» cosi precisava:
—
Certo, che, con la fine della nostra Patria, non è stato provveduto
dagli italiani alla restituzione dei prigionieri russi. Vi hanno
pensato però gli alleati, come hanno fatto per i prigionieri delle
altre nazioni. A convalida si può chiedere qualche cosa agli alleati
e, per la vicinanza che ne ebbero, agli abitanti della frazione di
Palombina Nuova di Ancona, dove è esistito per molto tempo il «Transit
Camp» alleato. Per tale campo sono passate decine di migliaia di
prigionieri e deportati politici di tutte le razze e colori. I
prigionieri russi provenienti al campo citato dai vari
concentramenti italiani venivano vestiti e rifocillati in numero di
circa 600-700 al giorno. —
Presidente: — Cosa disse ai prigionieri il D'Onofrio?
Bosello:
— Ricordo che ci parlò a lungo dell’Italia e della democrazia e
noi ne ricavammo una ottima impressione, fummo soddisfatti del
modo con il quale egli ci intrattenne per oltre mezz'ora. Ma un
paio di giorni dopo D'Onofrio chiamò me ed altri cinque
colleghi, fra i quali il cap. Magnani. Appena entrammo nella sua
stanza egli chiuse la porta e ci fece sedere. Accanto a lui era
il commissario Fiammenghi e il magg. Orloff. E cominciò
l’interrogatorio.
Il
sottotenente Sandali al quale per primo furono rivolte le
domande, si trincerò sul divieto fatto ai militari dal
regolamento di esprimere opinioni politiche e chiese che fosse
rispettato il suo diritto, come prigioniero di guerra, di non
essere interrogato su fatti politici. La secca risposta del
Sandali provocò un violento scatto del D'Onofrio il quale urlò
nelle orecchie del sottotenente: «È necessario che lei riveda le
sue posizioni perché con queste idee in Patria, lei, non ci
tornerà mai più». E rivolto a tutti: «Quello che dico a lui vale
per tutti i presenti». Fiammenghi e il magg. Orloff prendevano
appunti su alcuni fogli di carta.
|
«In
Italia non si torna» |
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Tifo
petecchiale |
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Parlano
i cappellani militari |
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|
Un
cappuccino, dalla lunga barba ben curata, è il secondo teste
della giornata chiamato a deporre: padre Giuseppe Fiora,
cappellano dell'8° regg. Alpini, fatto prigioniero nel gennaio
1943.
P.
Fiora: — Sento il bisogno di premettere che al campo di
Krinovaia, dove venni portato prima di essere trasferito ad
Oranki, la fame dei prigionieri era tanta da dar luogo a casi di
cannibalismo. Un giorno si presentò a me un soldato italiano il
quale, in una gavetta, mi offrì di mangiare con lui il cuore di
un commilitone morto: «Padre, vuol mangiare?» mi disse. Mi
prodigai con gli altri cappellani prigionieri, anche per invito
dei fuorusciti e dei russi, perché quei gravissimi fatti
avessero a cessare. Ripetemmo ai prigionieri le assicurazioni
fatteci dai fuorusciti di future migliorie. Ma nessun
miglioramento si verificò mai, né allora né dopo. La promessa
non fu mantenuta.
Durante
il viaggio di trasferimento da Krinovaia ad Oranki fu data come
razione di viveri ai prigionieri soltanto un pezzo di pane secco
e pesce salato. Niente acqua. E quando gli uomini ne chiedevano,
le guardie russe rispondevano: «Perché siete venuti a combattere
contro di noi? Adesso la pagate!».
Appena
arrivati ad Oranki tutti furono infettati di tifo petecchiale.
Nessuna assistenza sanitaria fu data ai malati dai sovietici:
l'unico a prendersi cura di loro fu il tenente medico italiano
Reginato il quale non ha fatto più ritorno dalla Russia. Oltre
al tifo altre epidemie scoppiarono nel campo. Fra esse la più
grave fu la dissenteria. L'indice di mortalità raggiunse il 90 e
anche il 95 per cento dei prigionieri. I malati giacevano su un
tavolaccio e a noi cappellani non fu mai consentilo esercitare
le nostre funzioni. Per essere ammessi nel lazzaretto dovemmo
fare domanda di infermieri. Io però mi ammalai il giorno prima
di essere assunto. Appena guarito fui assegnato ad un duro
lavoro, quello di segare alberi e trasportarli per dei
chilometri.
Ad
Oranki, per volere di tutti gli internati, la sera si pregava ad
alta voce. Fra le altre recitavamo la preghiera «Pro Rege». Un
giorno però io e l'altro cappellano, don Brevi, fummo chiamati
dal commissario politico del campo, Fiammenghi, il quale ci
proibì di recitare quella preghiera perché il Re era «un venduto
allo straniero» e il «capo dei reazionari». Naturalmente
abolimmo questa preghiera per il Re.
Questo
avveniva verso la fine di maggio del 1943. Dopo qualche mese
Fiammenghi ci chiamò nuovamente e ci disse che dovevamo smettere
di recitare preghiere perché in Russia non erano ammessi atti di
culto esterno. I prigionieri, se lo volevano, potevano pregare
privatamente. Chi non si fosse attenuto a questi ordini precisi
sarebbe stato punito con il carcere.
Presidente:
— Lei ebbe occasione di parlare con D'Onofrio?
P.
Fiora: — Personalmente no. Assistetti, però, ad una sua
conferenza nel campo di Oranki.
Presidente:
— Che cosa disse il querelante?
P.
Fiora: — Non lo so perché poco dopo che aveva cominciato a
parlare mi addormentai. Seppi, però, dagli ufficiali, al mio
risveglio, che l'impressione riportata fu tutt’altro che buona.
Avv.
Taddei: — L'intervento dei fuorusciti italiani migliorò le
condizioni dei prigionieri?
P.
Fiora: — Lei è matto. L'unico nostro sollievo era la
fratellanza.
Presidente:
— Lei può andare.
|
Nessuna
libertà di assistenza religiosa |
La parte
civile ha cercato di smontare il teste prima ancora che
cominciasse la sua deposizione, sottoponendogli la famosa
circolare, ma l'Alfieri non si è affatto scomposto: ha ammesso
senza esitazione di esserne il firmatario e poi ha cominciato a
narrare.
Alfieri:
— Appena dopo la cattura tutti gli uomini che non erano in grado
di camminare furono fucilati, altri soldati furono stritolati,
durante la marcia, dai carri armati russi. Arrivati alla
stazione di Galash i prigionieri furono fatti salire in treno:
vagoni merci dove erano stipati in 72 persone. Viveri per il
viaggio: una pagnotta ogni otto persone e sette aringhe salate.
Presidente:
— A testa?
|
«Qualcuno impazzì per la sete» |
Alfieri:
— No. Per tutto il vagone e senza un goccio d’acqua. Qualcuno
impazzì per la sete. Tentammo di dissetarci prendendo la neve che si
era accumulata sul tetto del vagone ma i russi di scorta provvidero
subito a spalarla e così non ci rimase altro che leccare i bulloni
del vagone dove si era attaccato un po’ di ghiaccio. Almeno dieci
persone morirono durante il viaggio. Ma nessuno si interessò di
loro. Furono accatastati in un angolo del vagone senza che nessuno
si curasse di segnare nemmeno i loro nomi. Alle fermate i cadaveri
venivano tirati fuori dai russi e gettati sulla neve.
Arrivammo,
quelli che ci riuscirono, a Minciurinsk. Eravamo 5000. Quando
ripartimmo dopo una permanenza di due mesi eravamo ridotti a 480.
Presidente:
— E gli altri?
Alfieri:
— Morti. A Vilna, negli Urali, le condizioni di vita migliorarono un
po'. Verso la fine del mese di aprile, una mattina venne da noi un
soldato russo addetto alle cucine: «Tovarish Stalin prikasal» ci
disse, che vuoi dire, più 0 meno «niente paura, il compagno Stalin
ha ordinato di non morire». E distribuì a tutti del burro. La cosa
si ripeté tutte le mattine per un mese di seguito: 40 grammi di
zucchero e 40 grammi di burro. La nostra sorpresa fu enorme, ci fece
sgranare gli occhi e urlare di gioia. Ma tutto ciò non valse a
diminuire la mortalità perché dei 480 arrivati ripartimmo di lì,
ridotti a poco più della metà: altri 200 prigionieri erano morti.
I
superstiti furono trasferiti al campo di Susdal in carri cellulari.
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83.000
prigionieri italiani! |
Alfieri:
— Esattamente dal primo numero del settimanale «L'Alba», uscito nel
febbraio del 1943. In esso si diceva appunto che erano stati
catturati 50 mila prigionieri italiani, appartenenti al 2° e al 35°
corpo d’armata e 33 mila appartenenti al corpo d’armata alpino.
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«Il
bosco della morte» |
18
giugno 1949 - Una lettera — che ha costituito un piccolo colpo di
scena — è la deposizione di un altro cappellano militare, Padre
Turla, sono stati i fatti che hanno caratterizzato questa udienza, e
devono avere contrariato non poco il sen. D'Onofrio.
Si è
presentato per primo il tenente dei bersaglieri Umberto Puce,
Puce:
— La mia prima destinazione, come prigioniero di guerra, fu un bosco
nei pressi di Minciulinskin: «il bosco della morte», come lo
chiamarono subito i prigionieri. Qui gli italiani furono sistemati
in alcune buche seminterrate, senza porta e malamente coperte; non
c'era paglia per terra e il cibo era costituito da una zuppa di
brodaglia con dentro nove chicchi, contati, di lenticchia, pane nero
immangiabile e per bevanda un liquido indefinibile. Arrivammo nel
bosco in settemila, ripartimmo tre mesi dopo che eravamo ridotti in
cinquecento. Ma già prima di giungere nel bosco i prigionieri erano
stati decimati per la lunga marcia, per la debolezza, per la
spietatezza delle guardie russe di scorta alle colonne. Il teste ha
raccontato che per impadronirsi delle tute mimetiche che due soldati
indossavano, quei disgraziati furono fatti uscire dalle file e
fucilati; quelli che per una ragione qualsiasi non riuscivano a
tenersi nella colonna venivano passati per le armi; abbattuto con
due colpi di pistola alla nuca fu un poveretto, che, durante il
viaggio in treno, sfondato un finestrino, si era gettato dal
convoglio sulla neve per placare la sete.
Al
campo di Viliba la situazione subì un leggero miglioramento: c'era
acqua in abbondanza e si mangiava un po’ meglio, ma il tifo
petecchiale e le altre epidemie continuarono a mietere vittime. Dei
500 arrivati ripartimmo, dopo meno di due mesi, in 300. Nuova
destinazione, il campo di Baskaia e poi Susdal.
P.
Turla: — Gli italiani non dimenticheranno mai il nome terribile
di Krinovaia ed ha aggiunto che in quel campo 27 mila
prigionieri italiani morirono di fame e di fatiche. Tanta era la
disperazione che per tre volte di seguito chiedemmo alle
autorità militari sovietiche di essere fucilati. Non voglio
scendere in particolari per non dare altri dolori a tante mamme
d'Italia, ma non posso non confermare gli episodi di
cannibalismo, le scene sanguinarie che si ripetevano giorno per
giorno, gli stenti delle lunghe marce di trasferimento.
Avv.
Taddei: — È vero che nei campi si poteva celebrare la Messa e
che fu perfino organizzato un Presepe nella ricorrenza del
Natale?
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Roma,
il presepe e la «mostra artistica» |
P.
Turla: — Per quanto mi riguarda, ho potuto celebrare la Messa
soltanto una volta, durante tutta la prigionia. Fu nel campo di
Susdal il 1° gennaio del 1944. Il Presepe, poi, è vero, fu fatto, ma
dovemmo fare una domanda al comando russo mascherandolo sotto la
definizione di «mostra artistica». È vero anche che i sovietici
vennero a visitare il Presepe. Essi si rallegrarono con noi e,
indicando il panorama nel quale si vedevano palmizi, capanne e
grotte, ci chiesero se raffigurava Roma.
In
silenzio i giudici si sono alzati e si sono ritirati in camera
di consiglio. Sono le 9,45.
Il
Tribunale rientra nell’aula alle 14,40.
Nel
più profondo silenzio il presidente dott. Carpanzano si alza e
legge il dispositivo della sentenza.
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Il
dispositivo della sentenza |
Visti
gli articoli 479 e 482 del C. P. P. il Tribunale assolve gli
imputati Luigi Avalli, Domenico Dal Toso, Ivo Emett, Giorgio
Pittaluga, Ugo Graioni dal reato di diffamazione loro ascritto in
ordine ai fatti specificati nei numeri 1 e 2 dell’opuscolo «Russia»
essendo provata la verità dei fatti stessi, e dalle diffamazioni
relative ai fatti specificati dai numeri 3 e 4
e dall'ultima pagina
dell’opuscolo perché il
fatto non costituisce reato.
Condanna
inoltre il querelante sen. Edoardo D'Onofrio al pagamento delle
spese processuali.
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