17 gennaio,
tramonto. Lasciamo il fronte e ripieghiamo a scaglioni
successivi verso il centro raccolta del 1° Alpini. Nei pressi di
Topilo la pista è ingombra, congestionata. Il freddo è intenso,
oltre 30 gradi sotto zero, ma non lo sentiamo tanto siamo
eccitati. Più avanti si nota un senso di orgasmo generale. I
reparti sono disciplinati e gli uomini ancora freschi. Ma si
deve cominciare ad alleggerire le slitte; la pista si cosparge
di cassette, di barili, di zaini.
18 gennaio
– Tra Topilo e Nowa Kalitva primo scontro con i russi e primi
prigionieri…. Puntiamo verso Nowa Kalitva dove ci incontra
il generale Battisti. Stiamo per essere accerchiati. Avvengono i
primi scontri con pattuglie russe. I reparti si accavallano.
Ecco i primi morti. Sono fermi ai lati della pista, seduti
nell’atto di pisolare. Quando cerco di scuoterne uno lo sento
freddo e lo vedo cadere di fianco, senza reazione, assiderato; e
altri ancora. Incrociamo reparti russi in avanzata. Quando ci
scorgono urlano ebbri, ci esplodono le armi addosso. Avviene un
incidente. Un soldato mette un piede su una bomba sepolta nella
neve la quale scoppia tra noi e loro. Urla di feriti. I russi
pensano ad un nostro attentato. I russi mettono nelle nostre
file un confidente che parla italiano. La divisa italiana si
confonde benissimo con la massa. Camminiamo verso Rossosc che
raggiungiamo. Per la strada lunghe colonne di carri armati
pesanti con soldati ebbri dalla vittoria. I cingoli ci sfiorano
paurosamente. Qualcuno dei nostri soldati viene maciullato così,
per ischerzo.
All’entrata
in Rossosc la colonna viene fatta inoltrare verso est.
Incomincia il calvario; spesso senza motivo alcuno i russi ci
sparano addosso. Molti cadono. Gli innocenti soldati italiani, a
decine, si abbattono sulla neve. Spesso incontriamo dei gruppi
di russi avvinazzati. Ci vengono vicino, ci sputano addosso, ci
picchiano, sparano. Non vedono che siamo dei prigionieri
innocui? E la famosa fratellanza verso il proletariato mondiale?
No, noi non siamo delle persone; noi siamo delle cose, dei
bersagli da tiro a segno. Ma neanche i nostri aguzzini sono
delle persone. Essi sono delle belve. Mentre si marcia ci fanno
sostare, di tanto in tanto a distendere sulla neve. Dei
poliziotti corrono in mezzo a noi con le pistole in pugno,
preceduti da cani vigorosi e feroci. La strada si cosparge di
cadaveri, nudi, mutilati. Alla fine di ogni tappa dormiamo
all’aperto o in stalle, gli uni accanto agli altri, per
riscaldarci col nostro stesso calore, col nostro fiato stesso. E
così marciamo per giorni. Impossibile descrivere queste marce.
Si va senza ricevere alcun alimento, con 35 gradi di freddo,
angariati e tormentati da russi che tutto possono sul nostro
corpo. Nessuno li controlla. Nessuno ci protegge. Chi potrà
credere che abbiamo marciato per sette dieci giorni mangiando
solo qualche boccone di pane offertoci dalla popolazione? E del
resto, se me lo avessero raccontato altri, se non la avessi io
stesso vissuta questa avventura certamente non crederei. Ma noi
reduci, noi ex prigionieri dell’ARMIR lo sappiamo bene tutti
quanto abbiamo patito e quanto abbiamo resistito!
Siamo al
settimo giorno di marcia. Sono completamente privo di forze, i
baffi, la barba, i capelli sono diventati un solo blocco di
ghiaccio che mi attanaglia il volto. Mi sento il cuore cedere e
la testa leggera. Mordo la neve a larghi bocconi per stancare le
mandibole e far tacere i crampi al ventre. Non capisco più
nulla, vaneggio, deliro…Dicono che chi non parte viene freddato
dalla scorta. Facciano pure…Giungiamo a Vorobioka, vengo
ricoverato nell’ospedale che non è nient’altro che una baracca
di legno. Non c’è organizzazione né disciplina. Per far presto
ti pestano, ti torturano. Ad ogni bagno perdiamo tre, quattro
uomini; restano morti sui tavoli del bagno. Il cuore cede e
trac, senza rumore, il giovane che ti parlava sino a qualche
momento prima è già freddo a terra. Il dottor Ferrarini (del
comando Divisione Celere) medica ed opera nel mezzo della
baracca-ospedale; una vecchia panca ed uno sgabello formano il
suo gabinetto chirurgico. Il congelamento ha fatto e fa strage
dei nostri arti. Piedi gonfi, marci, dai quali esce un fetido
siero purulento. E senza anestesia, senza conforti bisogna
operare, tagliare, asportare le parti necrotiche cancrenose. Vi
sono anche le tigri. Ci guardano due giovani soldati siberiani,
comandati da una sergentessa. Si divertono, all’ospedale a
pestare sadicamente le piaghe dei malati, farli urlare di
dolore. Battono col calcio dei fucili i moncherini di questi
poveri cristi senza difesa. In preda al delirio un ungherese si
allontana dal baraccone. Al mattino dopo, rientrato in sé, il
disgraziato si presenta all’ospedale da solo. La sergentessa se
lo prende con calma, lo conduce alla buca dei morti. Ne fa un
bersaglio per il suo fucile. Spara diversi colpi finché uno
raggiunge alla testa il malato e lo ammazza.
Dall’ospedale-baracca Egidio Franzini venne poi condotto nel
gulag di Kalac….
1° Maggio.
La festa del Lavoro si svolge mentre nel campo c’è un’atmosfera
di terrore. Un giovane siciliano addetto a lavori mentre
attraversava il piccolo prato accanto alla cucina, è prelevato
da una guardia avvinazzata che l’ha costretto a distendersi a
terra e senza alcun motivo lo ha freddato con tre copli di
fucile alla testa. Io stesso l’ho visto, al mattino in una pozza
di sangue. Ecco come si muore. La nostra vita vale zero, meno,
questa, del pidocchio che mi circola sul guibotto. 9 maggio.
Veniamo caricati su di un treno. Tutto il campo viene evacuato.
Al nostro arrivo eravamo circa 900; a questi se ne aggiunsero
molti rastrellati nei villaggi, nel colcos. Ripartiamo in circa
200. Gli altri sono tutti morti in due mesi. Dove siamo ora ci
giunge regolarmente “L’Alba”; è il giornale per i prigionieri di
guerra italiani, edito a Mosca per conto del Governo Sovietico,
diretto da comunisti italiani nell’URSS. Vi collaborano i
principali esponenti del comunismo italiano, Ercoli (Palmiro
Togliatti), Scoccimarro, Greco, Cerretti, Germanetto, Robotti,
Longo ed altri. Le notizie sono quasi sempre riportate dai
giornali sovietici….
Fonti.
Testimonianza di Egidio Franzini, Tenente degli Alpini del 1°
Reggimento, tratta dal suo libro “In Russia”. Stamperia Editrice
Zanetti, Venezia, 1946
Le
relazioni ufficiali dell'esercito italiano - quando prendono
in considerazione la ritirata dell'Armir - si soffermano
esclusivamente sull'aspetto bellico, esaltando o riportando le
manovre dei vari battaglioni. Questi testi non analizzano le
perdite parziali, né è dato modo di conoscere le difficoltà dei
comandi nel coordinare i vari momenti della ritirata. Anche lo
stesso consuntivo finale è carente di alcuni dati fondamentali
per giudicare il problema nella sua interezza. Per comprendere
com'è avvenuta la cattura dei reparti italiani e la fase
iniziale della prigionia bisogna fare affidamento ancora una
volta sulla memorialistica, che si dimostra per questo teatro di
guerra un'importante fonte conoscitiva alla quale attingere.
Il momento della ritirata che noi conosciamo attraverso questi
testi è particolare, non è fatto di aride cifre, di manovre
tattiche, è esclusivamente un percorso umano. Dai racconti dei
reduci si nota l'assenza di un comando forte che sapesse
interpretare le esigenze militari e, di conseguenza,
l'incapacità dei comandi di trovare rapide soluzioni ai problemi
logistici. Tra i militari italiani in quei giorni serpeggiava la
paura di morire, di vivere e di cadere prigionieri; nel
crescendo delle difficoltà mutava il rapporto con gli alleati
tedeschi, ammirati sotto il profilo bellico, ma disprezzati per
la condotta da loro tenuta nei confronti della popolazione e dei
prigionieri (che quasi sempre venivano fucilati). Diversi gli
scontri (non solo verbali) avvenuti nel corso della ritirata. È
sintomatico dell'asprezza di quel periodo quanto scrive Gabriele
Gherardini nelle sue memorie: "Tirano avanti con quel poco di
forza che loro rimane, si trascinano, alcuni si fermano
accoltellati dai congelamenti, si lasciano andare, bestemmiano e
infine si addormentano. Non si sveglieranno più. Lo sfinimento
li folgora alla sprovvista con la lama gelida del nemico in
agguato; sino a ieri, sino a stamane, sino a qualche ora fa non
andava male del tutto, si sostenevano ancora bene e dei
chilometri ne avrebbero fatti! Il pensiero del tracollo era una
cosa vaga, appena apprezzabile, come ciò che si ritiene possa
accadere, ma non subito, non oggi, certamente neanche domani".
Queste poche terribili righe danno l'idea dello stato di
prostrazione in cui si trovavano i militari italiani nel momento
in cui vennero fatti prigionieri. La loro cattura non avvenne in
modo sistematico: la lunghezza della colonna degli sbandati
superava i quaranta chilometri e dal momento che alcuni reparti
sovietici erano giunti in profondità, poteva capitare che
pattuglie sbandate catturate e lasciate in un'isba
venissero liberate dal sopraggiungere del grosso delle truppe in
fuga.
La maggior parte degli italiani fu catturata nel gennaio del
1943 nei valloni (in russo balke) di Valuiki. Si trattava
di cospicui reparti della "Cuneense", della "Julia" e della
"Vicenza". Al momento della cattura i russi erano
particolarmente ansiosi di impossessarsi degli effetti personali
dei prigionieri, in particolare degli orologi, mentre le
fotografie erano distrutte perché considerate un simulacro del
capitalismo.
Al momento della cattura i reparti tedeschi erano passati per le
armi; stessa sorte toccò anche a parecchi ufficiali italiani e a
militari originari dell'Alto Adige. Il resto degli italiani
catturati fu rapidamente spostato all'interno per evitare che
rapide controffensive potessero mutare la sorte dei prigionieri.
Prima di proseguire l'analisi occorre fare una riflessione utile
per comprendere appieno i motivi per cui si verificò un'ecatombe
di prigionieri. Nel corso dell'offensiva scatenata nell'inverno
1942-43 per la prima volta da quando era scoppiata la guerra le
truppe sovietiche si trovarono alle prese con il problema dei
prigionieri. Essendo il fronte instabile, i russi fecero
immediatamente convergere all'interno le truppe catturate; privi
di mezzi di trasporto, fecero loro percorrere a piedi la
distanza che separava i nodi ferroviari dalla prima linea. In
quelle che furono ribattezzate le marce del davai
(dall'incessante invito con cui le guardie della scorta
pungolavano i ritardatari) non ci si poteva fermare. Quando le
forze erano allo stremo un colpo di parabellum metteva fine alle
sofferenze del prigioniero: a centinaia caddero così. La neve
provvedeva poi a seppellire il corpo dello sfortunato italiano.
Ai tormenti della marcia si aggiunse la mancanza di cibo; il più
delle volte era la popolazione dei villaggi attraversati che,
mossa a pietà, dava agli italiani qualche patata bollita o del
pane secco. La notte li accoglieva in gelidi capannoni, a
temperature polari, e alla mattina successiva molti non si
alzavano più.
Dopo qualche giorno di marcia i prigionieri arrivarono ai nodi
ferroviari: molti credettero di aver posto fine alle sofferenze,
ma in realtà si apriva un altro capitolo della tragedia. Gli
italiani vennero fatti salire su carri bestiame e qui stipati
all'inverosimile, quasi cento ogni vagone; il carro era aperto
una volta al giorno e i prigionieri ricevevano un sacco di pane
ammuffito e delle aringhe. Nulla da bere era loro offerto, i
soldati potevano dissetarsi solo quando il treno si fermava alle
stazioni e dai pertugi lasciati fra le assi potevano raccogliere
della neve. Ogni mattina i carcerieri, nell'aprire la porta
delle carrozze formulavano la solita domanda "Skol'ko
kaput?" ("Quanti morti?"). I cadaveri erano perlopiù
ammassati sulla massicciata della ferrovia e in qualche caso
erano caricati sull'ultimo vagone per essere poi seppelliti alla
fine del viaggio. A seconda della destinazione, i prigionieri
italiani viaggiarono su questi treni da una settimana a un mese.
Ricerche di storici italiani e stranieri hanno messo in luce un
diverso modo di interpretare le cause di questa carneficina.
Secondo gli italiani la causa era da ricercarsi esclusivamente
nel regime fascista: "La responsabilità delle perdite italiane
non potrà mai essere attribuita al vincitore, ma rimane su chi
con deliberata incoscienza ha inviato gli italiani a combattere,
insufficientemente armati e vestiti, in terra straniera per mano
altrui”. Per lo storico Galitzki i colpevoli andavano ricercati
nel governo sovietico: "Naturalmente non c'è giustificazione
alcuna per il governo stalinista che ha lasciato morire tanti
prigionieri italiani, anche se c'è stato chi ha detto che gli
italiani non erano stati certo invitati in Russia; c'erano
andati di propria iniziativa e pure con le armi in pugno [...].
Una parte notevole dei prigionieri italiani mori nell'inverno
1942-1943 perché furono organizzati male la loro raccolta, il
loro sgombero e la loro permanenza nei campi di prigionia".
La prigionia
La Russia non aveva una "cultura della prigionia" tanto è vero
che non aveva aderito alla Convenzione di Ginevra, la serie di
norme giuridiche che garantivano un equo trattamento per i
prigionieri di guerra siglata nel 1929. Tuttavia il
Commissariato del popolo per gli affari interni (Nkvd) aveva
emanato disposizioni interne in merito alla prigionia di
stranieri proprio alla vigilia dell'Operazione Barbarossa.
Nonostante questo gli italiani furono internati in molti lager
sparsi su tutto il suolo sovietico. Un censimento vero e proprio
di questi campi non è mai stato fatto e gli unici nomi di cui
siamo venuti a conoscenza sono quelli ricordati dai reduci, nomi
che evocano chiaramente la tragedia di quei momenti, come Susdal,
Krinowaja, Oranki, Tambow. Diversi hanno provato a redigere una
mappa di quei luoghi, soprattutto nell'immediato dopoguerra al
rientro degli italiani sopravvissuti. Un elenco più attendibile
è quello realizzato dall'inviato della Rai Pino Scaccia nel
corso della sua inchiesta sull'Armir: il cronista conta 103
campi e li numera progressivamente (in questo caso si arriva
fino al 510 e ciò attesta la cifra elevata di campi di
prigionia).
Valutando la ricostruzione cronologica dell'ubicazione dei
campi, si nota come questi fossero disseminati su tutto il suolo
sovietico. La tesi della mancata organizzazione sovietica e
dell'inesperienza nel settore della prigionia è rilevabile anche
nella diversa costituzione fisica dei campi di concentramento.
Analizzandone alcuni si nota come Krinowaja fosse una vecchia
scuderia degli zar: i prigionieri erano alloggiati nelle stalle,
enormi costruzioni rettangolari ad un solo piano che mancavano
completamente di ogni genere di servizi e di assistenza
sanitaria. In questa prigione furono alloggiati gli alpini
catturati a gennaio, e la mortalità, soprattutto nei primi mesi
di prigionia, fu altissima.
Ad Oranki (campo numero 74) venne riattato un vecchio monastero
privo di muri di cinta, con una semplice serie di reticolati a
protezione della costruzione. Una chiesa sconsacrata era adibita
a deposito delle derrate; fu la prigione degli sbandati delle
divisioni "Pasubio" e "Torino". Inusuale il lager di Tambow, in
quanto non vi erano costruzioni di superficie: gli alloggi erano
dei veri e propri bunker sotterranei, costruiti in
prossimità di piste d'atterraggio aeree. Queste abitazioni erano
inadatte a ospitare esseri umani, ma in ognuno di questi rifugi
alloggiavano una quarantina di persone. Mancava completamente
l'illuminazione e l'areazione e un unico ingresso metteva in
contatto con il mondo esterno. Importante per essere stata la
prigione degli ufficiali era il campo 160 di Susdal. Gli
italiani erano alloggiati nelle celle dei monaci dell'ex
monastero (Susdal era la città santa degli zar). I locali erano
spogli e privi di qualsiasi comodità, ma questa situazione era
di gran lunga migliore rispetto alle precedenti descritte.
Prikaz Stalin
La prigionia dei militari italiani in Russia può essere divisa
in due fasi: la prima è quella relativa al ricovero nei campi di
concentramento, in cui si verificò un'alta mortalità tra gli
internati e che si sviluppò soprattutto nei tre mesi successivi
alla cattura; la seconda - che durò molto più a lungo e si
protrasse ben oltre la fine del conflitto mondiale - in cui i
superstiti si ripresero fisicamente, riuscirono a lavorare e
furono martellati dalla propaganda sovietica. Come abbiamo detto
in precedenza, una volta arrivate ai campi le nostre truppe
furono falcidiate da epidemie che fecero strage dei
sopravvissuti ai combattimenti, alle marce e ai lunghi
trasferimenti in treno.
L'alta mortalità dei primi mesi di permanenza nei campi è da
ricercarsi in due motivazioni: il soldato italiano aveva
combattuto a lungo in condizioni climatiche pessime ed era
arrivato alla prigionia stremato. A questo fatto va aggiunto che
i sovietici - poco ferrati in materia di prigionia - forse in un
primo tempo si auguravano di sbarazzarsi dei prigionieri
privandoli di cura e assistenze. In seguito le mutate condizioni
atmosferiche unite al fatto che il fronte si spostava sempre più
verso nord-ovest e quindi si cominciava ad intravedere una fine
(seppur lontana) del conflitto, fece cambiare opinione
sull'utilizzo dei prigionieri. Dai calcoli oramai accettati da
tutti gli storici e da coloro che hanno vissuto sulla propria
pelle l'esperienza della prigionia, non è da escludere che gli
italiani arrivati ai campi superassero le 40.000 unità: di
questi solo 10.030 torneranno a casa.
La prigionia dei nostri militari migliorò nell'aprile del 1943
grazie ad alcune disposizioni del Nkvd: i prigionieri
ribattezzarono il provvedimento "prikaz Stalin" e sotto
questa dicitura lo troviamo in numerosi testi di memorialistica.
Il miglioramento fu effettivo proprio sotto l'aspetto della
sussistenza e dell'approvvigionamento. Come abbiamo visto in
precedenza, anche se non aveva aderito alla Convenzione di
Ginevra l'Urss si era data una serie di regole, che però nei
primi mesi di guerra erano state disattese a causa dell'asprezza
del conflitto. Il regolamento datato 1941 era stato approvato
dal Consiglio dei commissari del popolo (Snk)
e portava
la firma del presidente, Josif Stalin. Esso prevedeva il lavoro
facoltativo per gli ufficiali, e per chi aderiva vi era la
possibilità di ricevere un compenso stabilito dalla Direzione
del Commissariato del popolo per gli affari interni, e la
separazione tra ufficiali e soldati nei campi (fatto che si
verificò puntualmente solo dall'aprile del 1943). In realtà la
truppa italiana fu subito utilizzata per alcuni lavori anche
pesanti; i prigionieri erano divisi in tre categorie a seconda
delle capacità fisiche. Alle volte potevano esserci turni che
duravano dodici ore e il compenso era calcolato in base ad una
"norma" che veniva stabilita da una commissione apposita.
Attraverso i documenti d'archivio è stato interessante
verificare la quantità di regolamenti che il Commissariato del
popolo emise in favore dei lavori che dovevano essere svolti dai
prigionieri.
Alla fine del conflitto fu poi emesso un regolamento
circostanziato in base al quale furono stabilite norme precise
per il lavoro dei prigionieri. Questi erano seguiti da una
Commissione medico lavorativa (Cml) che assegnava e seguiva i
lavori; in base a tali ordinanze i prigionieri furono suddivisi
in tre categorie di lavoro: quelli atti a lavori pesanti e
pesantissimi, quelli idonei a un carico medio-pesante e quelli
adatti a opere leggere. Il lavoro doveva in ogni caso essere
retribuito con un compenso non superiore ai 200 rubli mensili.
Secondo le testimonianze dei prigionieri e dei loro carcerieri,
questi lasciarono un buon ricordo nella popolazione locale
soprattutto grazie alla qualità dell'opera prestata. Gli
italiani infatti erano capaci di ingegnarsi con i più
improbabili attrezzi e nel corso della loro detenzione furono
impiegati in svariate mansioni: dalla costruzione di tratti
stradali, ad alcune opere in falegnameria nei colcos,
come contadini e in qualità di taglialegna nei boschi.
Fonti.
Cattura e prigionia, tratto dal saggio di Giuseppe Rasolo,
"l'impegno", a. XV, n. 2, agosto 1995 e n. 3, dicembre 1995
© Istituto per la storia della Resistenza e della società
contemporanea nelle province di Biella e Vercelli. |
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