"Noi ufficiali, sottoufficiali,
soldati, scampati dalla spaventosa prigionia di Russia, liberi
finalmente da ogni morale e materiale coercizione, nel varcare i sacri
confini della Patria ricordiamo alla Nazione le tante decine di migliaia
di nostri compagni, morti nella prigionia di Russia per fame, freddo,
epidemie e inumano trattamento. Facciamo appello al Governo Italiano
perché richieda ed ottenga il sollecito rientro dei nostri connazionali,
arbitrariamente trattenuti in prigionia, con la complicità di alcuni
elementi che additiamo al disprezzo del Paese come indegni del nome
italiano..."
Questo appello venne scritto in Austria
dove sostarono per il rientro in Italia dai gulag 552 ex prigioneri---
L'appello fu firmato da 526.
****************************************************************************************************************
Gulag (dal russo
ГУЛАГ: Главное Управление Исправительно— Трудовых
Лагерей, "Glavnoye Upravleniye
Ispravitelno-trudovykh Lagerey", "Direzione principale
dei campi di lavoro correttivi") era il ramo della Polizia
dell'interno e servizio di sicurezza sovietico che costituì
il sistema penale dei campi di lavoro forzato. Benché
questi campi fossero stati pensati per criminali di ogni tipo,
il sistema dei Gulag è famigerato soprattutto come mezzo di
repressione degli oppositori politici dell'Unione
Sovietica.
prigionieri italiani del campo di Spassk di Alberto
Rosselli
Tra i prigionieri di guerra detenuti a Spassk c'era l'artigliere alpino,
Andrea Bordino di Castellinardo (Cuneo) che nel dopoguerra, dopo essere
rientrato in Italia, prese l'abito talare diventando fratello Luigi e
prestando servizio presso l'Istituto Cottolengo di Torino. Qualche anno
fa è iniziato il suo processo di beatificazione durante il quale sono
state raccolte molte testimonianze sulla sua vita esemplare, comprese
quelle relative al periodo da lui trascorso dietro il filo spinato di
Spassk. E queste preziose memorie, minuziosamente vagliate e confrontate
con i ricordi di alcuni suoi compagni di prigionia sopravvissuti, hanno
consentito di ricostruire, almeno in parte, anche alcuni degli aspetti
della vita in questo ed altri campi del Kazakistan.
"Furono circa 8.000 gli italiani (soldati dell'ARMIR) che vennero
trasferiti nei gulag del Kazakistan", ricorda il soldato Pietro Ghione.
"Io mi trovai in compagnia con Andrea Bordino nel campo Ievetnot
Sodieved 99 di Spassk. Le nostre condizioni fisiche e psichiche erano
talmente disastrose che stentavamo a reggerci in piedi. Per tre o
quattro mesi Andrea ed io abbiamo condiviso la stessa baracca. Eravamo
distrofici e non potevamo sopportare lavori troppo pesanti. I
prigionieri ancora sani venivano spediti nelle miniere o, più raramente,
se si trattava di un tecnico o di un operaio specializzato, in qualche
fabbrica. A chi lavorava all'aperto venivano dati dei vestiti di
pelliccia grezza. Ma all'interno del campo eravamo ricoperti di stracci.
Il freddo era tremendo e il cibo scarso. Noi malati eravamo talmente
prostrati che facevamo fatica perfino a parlare. Certi, tuttavia,
riuscivano talvolta a cantare e, soprattutto, a pregare. Ma tutte le
notti qualcuno di noi ci lasciava la pelle".
"Solitamente le guardie russe non ci maltrattavano gratuitamente",
continua Pietro Ghione. Andrea aveva dei foruncoli nella schiena grossi
come uova. Quando si aprivano lasciavano un buco profondo. Soffriva
terribilmente, ma non si lamentava. Parlai di lui ad un medico tedesco,
prigioniero nel campo, il quale a sua volta, si consultò con un collega
russo, che fece trasferire Andrea Bordino in un ospedale chiamato il
Lazzaretto. Per almeno tre mesi non ho avuto più sue notizie. Credevo
forse morto. Poi, nella primavera dell'anno seguente, prima di lasciare
la Siberia, l'ho rincontrato. Era ridotto a pelle ed ossa, ma i bubboni
sulla schiena erano guariti. Degli 8.000 che eravamo quando arrivammo al
campo 99, siamo ripartiti per l'Italia in poco più di 200".
"Durante la buona ma breve stagione - racconta il soldato Giovanni Mana,
anch'egli rinchiuso a Spassk - chi era in grado di lavorare veniva
mandato nei campi, mentre in inverno venivamo spediti nelle miniere.
Giunsi al campo 99 verso la fine di aprile. La notte era ancora molto
fredda e il termometro scendeva a meno 20. Non veniva mai giorno, ed era
subito buio nelle prime ore del pomeriggio. Ricordo che il ghiaccio
cominciò a sciogliersi a maggio inoltrato. In ogni campo vi erano
parecchie baracche in parte già occupate da prigionieri rumeni ed
ungheresi. C'erano anche alcune case in muratura, costruite dai membri
di una spedizione mineraria inglese insediatasi in questa regione negli
anni Venti per avviare lo sfruttamento delle miniere. Tutte le
costruzioni - continua Mana - erano cintate da tre sbarramenti di filo
spinato, uno dei quali alto tre metri e attraversato da corrente
elettrica ad alto voltaggio. Le garitte per i soldati erano in legno ed
erano sistemate su torri alte parecchi metri e situate un centinaio di
metri l'una dall'altra".
I prigionieri italiani alloggiavano in baracche di legno con il tetto in
lamiera. All'interno i letti erano a castello, a tre o quattro piani.
Ognuna delle baracche ospitava un centinaio di uomini. "Nei mesi
invernali era impossibile uscire dalla baracca senza morire assiderati".
L'appello (cioè la conta) avveniva quattro volte al dì, e durante le
giornate più fredde veniva fatto all'interno delle baracche onde evitare
che i prigionieri, molti dei quali indossavano laceri cappotti e
copricapo di fortuna, cadessero a terra.
Un giornata nel gulag
"Nel campo 99 la sveglia era alle sei, quando restavano ancora parecchie
ore di buio fitto. Prima veniva la conta dei prigionieri e poi i russi
ci costringevano a lavare i pavimenti della baracca. Bisognava
combattere i pidocchi. Una volta alla settimana ci facevano fare una
doccia, ma l'acqua spesso mancava. Verso le otto ci davano il ciai,
una specie di tè, e qualche volta un pezzo di pane nero. Alle dieci e
mezza ci passavano la prima scodella di miglio. Poi, intorno alle
quattro del pomeriggio, quando ormai era buio, ci toccava la seconda
scodella di brodo di miglio, accompagnata qualche volta da un pizzico di
farina o da una patata.
Ogni giorno ci era concessa un'ora di riposo, che era solitamente
dedicata all'indottrinamento politico. Qualche volta ci lasciavano
cantare, ma era d'obbligo l'Internazionale. Più raramente ci
era concesso di cantare motivi alpini o pezzi d'opera popolari. I russi
amavano le canzoni italiane. Spesso, la sera, si pregava in silenzio".
I cannibali di Spassk
Pietro Ghione, prigioniero in Kazakistan con fratello Luigi, ha
affermato "di avere visto un prigioniero ungherese cibarsi delle carni
d'un soldato italiano morto". Questa testimonianza è avvalorata da
quella del soldato di fanteria Bruno Borettini, della Divisione Pasubio,
anch'egli ospite di una delle baracche di Spassk.
"La mia storia è quella di un povero contadino che dopo essere stato
arruolato ha combattuto in Iugoslavia e in Russia. Nel novembre 1941 fui
preso prigioniero a Stalino e venni spedito in Kazakistan, precisamente
a Karagandà, Campo n. 99. In quel momento noi italiani eravamo in 500;
gli altri prigionieri appartenevano ad altre nazionalità. Un giorno,
tormentato dalla fame, andai a raccogliere dell'erba che mi sembrava
commestibile. Ma mi sbagliai: era velenosa. Fui ricoverato al Lazzaretto
dove mi fecero una lavanda gastrica. Dopo qualche mese di fame e freddo
ebbi una pleurite bilaterale. Ma i russi non volevano ricoverarmi perché
dicevano che fingevo. Un ufficiale medico tedesco mi visitò e con una
rudimentale siringa mi aspirò due litri di acqua dalle pleure. Me la
cavai soltanto perché avevo un fisico robusto.
"Un giorno ci dissero che ci avrebbero mandati a casa. Venimmo caricati
su una tradotta merci, ma dopo cinque giorni di viaggio ci scaricarono a
Taskent per poi trasferirci al campo n.26/2 di Paktaral. Incominciava un
secondo calvario. Poco pane, poca minestra, e molto lavoro nei campi di
cotone. La mattina uscivamo scortati da "collaborazionisti" italiani
vestiti alla russa e armati di fucile. Non ero capace di mandare giù
questa cosa. A causa della fatica arrivai a pesare 38 chili. Diventai un
distrofico, e allora mi lasciarono alla baracca.
"Passai altri due anni e mezzo di prigionia. Poi, quando venne il giorno
del mio rimpatrio, mi ammalai. Era la malaria. Due miei commilitoni
napoletani mi presero sotto braccio e mi accompagnarono fino alla
stazione di Paktaral. Sono sicuro che se le autorità russe avessero
saputo che avevo la febbre non mi avrebbero lasciato partire. Tornato in
Italia, al mio paese, il sindaco, che era un comunista, mi promise un
lavoro dignitoso. Ma siccome un giorno mi sorprese in un'osteria a
parlare male dell'Unione Sovietica ritirò la parola. Io sarò anche un
poveraccio, un contadino, ma questa è stata proprio una bella
carognata".
NOTE
Tra il 9 e il 16 agosto 2002, una delegazione di 25 vescovi e
rappresentanti di Conferenze episcopali dell'Europa e dell'Eurasia,
insieme al Presidente del CCEE, Mons. Amédée Grab, vescovo di Coira, ha
realizzato una visita ai principali campi del Kazakstan. Lo scopo del
viaggio era la commemorazione dai milioni di deportati di diverse
nazionalità che Stalin fece rinchiudere nei lager del Kazakstan. Come ha
raccontato Aldo Giordano, Segretario generale CCEE, "la delegazione ha
fatto anche visita al gulag di Spassk, presso Karaganda, dove nel 1941
fu costruito dai comunisti un campo speciale per i prigionieri di guerra
Ancora oggi nella steppa si trovano i cippi e le croci che ricordano i
sepolti russi, ucraini, tedeschi, austriaci, rumeni, ungheresi,
italiani, polacchi, cechi, slovacchi, francesi, giapponesi".
****************************************************************************************************************
Il Dottor
Egidio Franzini, ufficiale degli alpini, pubblicava nel 1946 nel
suo libro "In Russia": " A Krinovaja la tragedia dei prigionieri
italiani toccò forse il suo vertice massimo. Nel delirio
provocato dal digiuno vennero commessi atti difficilmente
immaginabili o descrivibili. Episodi di cannibalismo vennero
limitati costituendo squadre di vigilanza armate di barre
metalliche. Un artigliere dipendente del Te. d'artiglieria
Eugenio Corti, XXXV Corpo, 61 Gruppo, già presso il Comando 2°
Battaglione dell'80° Fanteria, ad Abrassimow riferisce che
durante la marcia fra Arbusow e Tcerchowo, tra i prigionieri in
mano russa si registravano tre casi di antropofagia collettiva.
Altri casi si dicono commessi in una chiesa parte diroccata, a
due giorni di marcia oltre il Don, dove i prigionieri erano così
pigiati da faticare a starvi in piedi. Altri episodi vennero
riferiti in Tartaria e a Kazan sul Volga. Il P.V. assicura di
aver veduto più volte arrivare vagoni di prigionieri rumeni; i
morti nei carri bestiame, erano "aperti" dai compagni folli per
la fame. Solo ai primi giorni di maggio del 1943, migliorarono
le condizioni generali in quasi tutti i campi di prigionia
****************************************************************************************************************“
Nel campo di Suzdal
Ai prigionieri italiani e romeni che vi giunsero verso la metà del
gennaio 1943 fu negato lo spettacolo delle meraviglie della città museo:
forse perché arrivavano di notte o forse perché non avevano la forza di
guardarsi attorno dopo aver marciato sulla pista ghiacciata per 40 km
dalla stazione di Vladimir. Valicarono l'alto torrione d'ingresso e
passarono sotto l'arco della Annunciazione, ignari di lì a poco di
calcare il pavimento di alcuni dei più famosi conventi del mondo.
Nessuno disse loro dove fossero giunti e quale fosse la storia
leggendaria del Lager 160 per prigionieri di guerra. Vi fu il solito
interrogatorio e la solita minuta perquisizione con una prima sommaria
divisione tra ufficiali e soldati. Gli Ufficiali vennero avviati all'ex
dormitorio dei monaci, con celle più o meno ampie con due assi per
dormire e una stufa di mattoni però priva del combustibile. I soldati
romeni, italiani, croati furono alloggiati invece in quello che fu
chiamato " III Korpus" dove non esistevano plance (panche) di legno, ma
la nuda terra battuta. Dal mese di gennaio al mese di aprile entrarono
nel lager circa 2800 militari: ne sopravvissero non più di 200 (di più
in altra versione). E' la medesima percentuale che si riscontrò negli
altri campi tristemente famosi come Krinovaja, il cimitero degli alpini,
Tambov, Elabuga ecc..ecc.. Al primo appello che venne effettuato dopo la
moria di tifo petecchiale sul viale ancora innevato, i presenti erano
esattamente 72, aumentati a 130 col rientro di quelli che erano stati
trasferiti all'ospedale esterno oltre ad alcuni romeni. Durante questo
primo periodo la alimentazione dei prigionieri consistette normalmente
in una zuppa
di cavoli acidi senza
grassi e 600 gr. di pane nero al giorno.
I prigionieri dovevano recarsi a sera inoltrata nel locale che era stato
adibito a cucina ( la chiesa di San Nicola ) a prelevarvi i secchi di
zuppa, in ragione di uno ogni 15 persone e il pane. Soldati affamati
romeni si aggiravano nel buio per assalire i portatori. Si dovettero
formare squadre di difesa con coloro che erano ancora in grado di tenere
un bastone in mano. I russi in questo periodo, pareva non esistessero:
solamente le sentinelle marciavano su e giù nei bastioni e le sestry
(sorelle-infermiere) irrompevano in qualsiasi ora del giorno e della
notte vestite di scuro per costringere i malati di tifo, dissenteria a
seguirle nel bagno e quindi al lazzaretto dove venivano ricoverati gli
infetti. Allontanarsi dai propri compagni, dover morire da soli, senza
il conforto la vicinanza di un amico, era il timore più grande di coloro
che venivano attaccati dal morbo. Si ebbe più di un ammalato che fuggì
dal lazzaretto, conoscendo ormai quale fosse la sua sorte, per
confidarsi a un amico
per consegnare uno scritto, una fotografia da riportare in Italia. Nel
lazzaretto dislocato nel palazzo dell'Archimandrita a volte compariva un
sanitario che distribuiva qualche cucchiaiata di permanganato, unico
farmaco esistente nel campo. Circa il bagno abbiamo una inedita
descrizione dal diario di un ex prigioniero:
" La costruzione adibita a bagno si trovava sul lato opposto a quello
dell'ingresso. Si divideva in quattro parti, La prima era costituita da
una specie di corridoio di tre o quattro metri di larghezza e una decina
di lunghezza. Serviva da spogliatoio e sulla destra della porta
d'entrata era sistemato il forno di disinfestazione in cui veniva
gettato il vestiario (non per bruciarlo). In fondo un vano senza porta
conduceva al bagno, una stanza quadrata di sette metri. Sul soffitto era
sistemata una tubatura di ferro che correva attorno a tre delle pareti e
dalla quale sgorgava l'acqua da fori praticativi. Lungo le pareti erano
sistemate delle panche fradice, unica suppellettile del complesso. I
prigionieri cercavano di conquistare un posto presso la parete al di là
del quale c'era il forno alimentato a legna. Si usciva da questo
stanzone per passare nell'ultimo locale dove ci si rivestiva con i panni
che venivano estratti dall'altra parte del forno."
Il rituale era sempre
uguale. I prigionieri vi erano condotti dalle infermiere che
provvedevano anche alla loro depilazione completa con macchinette e
rasoi. Nel bagno scene di miserabili corpi scheletriti che si battevano
per appoggiarsi al muro. Se la mischia durava a lungo intervenivano i
soldati croati nominati dai russi, in nome della fratellanza panslava,
kapò (sorveglianti). Non di rado più di un prigioniero veniva trascinato
fuori dalle docce ormai cadavere. I vestiti poi quando venivano estratti
bruciacchiati dal forno brulicavano delle larve appena nate, grazie al
calore del forno che non era bastato. In queste condizioni gli infetti
venivano condotti al lazzaretto vestiti di un camicione impregnato di un
liquido nauseabondo e sdraiati su pagliericci dove avrebbero atteso la
morte. Ogni giorno i cadaveri venivano trasportati nel sotterraneo della
cattedrale della Trasfigurazione, spogliati e lasciati a congelare in
attesa di essere nottetempo traslocati con slitte in una grande fossa
comune fuori del campo. Durante questo periodo i più sani, ufficiali
compresi, furono adibiti alla spalatura della neve dai bastioni: altro
lavoro particolarmente raffinato era quello di sturare i pozzi neri che
per il gelo erano continuamente intasati di urina e di escrementi che
giungevano fino alle porte delle celle. I più fortunati erano adibiti a
scaricare la legna o a lavorare in cucina, con la possibilità di avere
un pezzo di legno e una cucchiaiata di minestra in più. All'inesistenza
di tutto faceva riscontro invece l'assistenza politica. Al lager 160
arrivò un certo triestino, Roncato, che dapprima si presentò come
francese, in divisa russa. Il suo compito fu quello di iniziare l'opera
di indottrinamento politico tra gli ufficiali che eseguì con zelo, ma
senza troppo seguito: le cause principali; fame .. fame.. freddo. Uomo
alquanto rozzo, il Roncato, quando le epidemie non ebbero più vittime,
riuscì a costituire un primo nucleo antifascista, con un gruppo di
sparuti ufficiali. Cominciò a tenere delle riunioni con gruppi di
prigionieri, intrattenendoli più che altro sui suoi presunti avventurosi
ricordi personali.
Le sue conversazioni
erano zeppe di quel porco di Mussolini, quell'idiota di Vittorio
Emanuele, che ovviamente ottenevano il solo effetto di irritare i suoi
ascoltatori. Un errore madornale poi lo commise quando lasciò un
foglietto di appunti che gli erano serviti da traccia, pieno di errori
di ortografia. Fu sostituito da un bolognese, nome di battaglia Rizzoli,
nome vero Gottardi. Tutti questi facevano capo a Paolo Robotti, cognato
di Togliatti, che appariva nel campo nelle occasioni più importanti e
che dirigeva a Mosca il giornale l'Alba . Il gruppo antifascista che si
era formato era guidato da un maggiore russo Procuranov che parlava
italiano e informava gli adepti mensilmente sull'andamento della guerra.
Analogamente la pasionaria romena Anna Pauker faceva per i suoi
concittadini. Lasciamo per ora il problema politico ed i fatti che
seguirono il 25 luglio del 43(caduta di Mussolini) per vedere come si
evolve la situazione dopo la decimazione invernale e primaverile.
Arrivato un nuovo comandante russo (Novikov) in sostituzione
dell'evanescente che aveva permesso la perdita del 80% dei prigionieri,
giunse anche la voce di un decreto di Stalin che avrebbe migliorato le
condizioni con una priorità: romeni, italiani, ungheresi e tedeschi. Non
venivano citati i già facilitati croati, i finlandesi e la legione
Azzurra Spagnola.
Il nuovo colonnello
mise subito in atto alcuni provvedimenti che lasciavano prevedere un
certo miglioramento nelle condizioni di vita. Quelli che erano
sopravvissuti, nel lazzaretto, seppero che falegnami stavano preparando
castelli di legno, nelle celle quasi vuote. Il vitto migliorò quando
cominciarono ad arrivare le derrate USA. La neve si scioglieva
lentamente e il campo presentava grandi macchie di erba verde. Allora
vedevi uscire al sole scheletri di quaranta chili, trascinarsi sui
vialetti del vecchio monastero appoggiati l'un l'altro, quasi ad
assorbire dal sole la linfa vitale. Era lo stesso colonnello che li
incitava a muoversi, e quelle larve di uomini tentavano sotto gli occhi
del maggiore russo (della cellula) di fare anche ginnastica. Le razioni
ora erano composte al mattino da 300 gr. di pane bianco, pochi grammi di
burro salato o strutto o lardo, 10 gr di zucchero e ciai (tè) caldo. A
mezzogiorno e alla sera equamente ripartiti altri 300 gr. di pane nero,
una zuppa di piselli o cavoli e patate, una polenta (kascia) di grano
saraceno o avena o farina di soia. Qualche volta del pesce secco.
Escluso il pesce, il te e le granaglie tutto il resto era americano.
Dopo tre mesi di cura alimentare, il regime subì qualche cambiamento.
Sparirono pane bianco, diminuirono piselli e granaglie ad alto contenuto
calorico. Il regime precedente restò in vigore solo per i distrofici in
base allo stato fisico e per qualche politico raccomandato. Con il 25
luglio e le discussioni del dopo, si era creata una frattura anche
all'interno dei ben disposti a causa del destino di Trieste vista dai
Russi come cosa loro o di Tito. (allora i rapporti erano cordiali). Il
destino di Suzdal era stato già deciso alcuni mesi prima, quando nelle
alte sfere si destinò il campo a prigione per ufficiali, in particolare
tedeschi catturati a Stalingrado.
Stalingrado era
caduta alla fine di gennaio del 43 e il colonnello (Von) PAULUS e lo
stato maggiore si erano consegnati ai russi del generale Laskin.
Sottoposto per oltre due mesi ad interrogatori, Paulus giunse a Suzdal
in aprile con 60 suoi alti ufficiali, alcuni generali romeni, e tre
generali italiani catturati sul Don: Battisti (Cuneense), Ricagno (JULIA),
Pascolini (Vicenza). Paulus fece vita molto appartata finché un giorno
fu trasferito (si era convertito, non rientrerà mai più in Germania). Vi
restò invece un irriducibile, il suo capo di stato maggiore Schmidt che
incanutì nei lunghi anni di prigionia isolato da tutti. Continuarono ad
affluire al campo, per buona parte del 43, ufficiali italiani circa 600
da tutte le regioni, compreso la Siberia. La quota italiana era sempre
maggioritaria e con la partenza dei romeni, che andarono a combattere a
fianco dei russi, i servizi furono affidati a noi. L'infermeria veniva
diretta da un medico russo d’origine romena, d’ottime qualità umane
coadiuvato a turno da medici italiani e tedeschi. Il 28 aprile del 43 il
comando sovietico aveva distribuito una cartolina della croce rossa per
scrivere a casa una volta al mese e per ricevere posta e forse pacchi.
Il 1944 fu un anno di lento ritorno alla normalità. La posta dall'Italia
non arrivava, figurarsi i pacchi. Nell'estate proliferarono gli
intagliatori di legno e ossa (ungheresi). Si organizzò una partita di
calcio (fra italiani) e qualche spettacolo con strumenti raffazzonati.
Il desiderio di vivere risorgeva. Quando venne annunziata la fine della
guerra, il comando russo propose agli ufficiali di recarsi a lavorare
nei Kolchoz (fattorie) dei dintorni. Pochi ufficiali provenivano dalle
campagne, ma tutti s’inserirono ugualmente: taglio dei cereali, raccolta
dei cavoli e delle patate, trebbiatura erano i lavori prevalenti.
I prigionieri, pagati
dai Kolchoz, non vedevano una lira perché tutto andava alla direzione
del campo, ma in cambio ebbero qualche aggiunta al vitto, compreso il
latte. Il dirigente Rizzoli fu sostituito verso la fine del 45 quando
cominciarono i primi rientri, e pure lui rientrò. Molte famiglie furono
avvertite solo allora dell'esistenza in vita del loro congiunto. Il
nuovo venuto, Ossola, fu una figura anonima, una comparsa così come i
comandanti militari del campo che sostituirono Novikov: Krastin e
Gherassimov. Proprio per l'indifferenza di questi non sempre le
condizioni fissate per il vitto vennero rispettate. Tanto che si arrivò
ai primi del 46 con uno sciopero della fame per l'incuria e la disonestà
dei funzionari preposti agli approvvigionamenti. Per diversi giorni
ormai alla vigilia del rimpatrio venne servita una zuppa a base
d’ortiche e sansa di soia, residuo della lavorazione dell'olio. I più
affamati che l'accettavano la restituivano ai pozzi neri del campo nelle
medesime condizioni nelle quali era entrata. Il maggiore russo
responsabile del vitto, soprannominato krapiva (ortica), si preoccupò
dopo pochi giorni di avvertire che sarebbero giunti alcuni carichi di
carne. E' così fu infatti: si trattava di teste, corna, zoccoli e
garretti di bovini. L'ultima beffa, ma ormai era finita.
(Testimonianza di Emilio Vio 3°Bersaglieri)
****************************************************************************************************************
Testimonianza di
Michele Massucco, classe 1918, di Spinetta (Cuneo). "Quando
l'insegnante era Palmiro Togliatti"
Dal giornale "La Guida" di Cuneo, del 28 settembre 2007:
"Michele Massucco, classe 1918, da Spinetta, ha messo a disposizione
degli organizzatori della Mostra di Madonna delle Grazie alcuni
quaderni. Sono gli appunti presi in Russia, dove, durante gli anni di
prigionia in Unione Sovietica, sino al 1945, ha persino frequentato la
"scuola di antifascismo". Come insegnante aveva Palmiro Togliatti."Andavamo
in classe tutti i giorni", racconta "parlavano e parlavano e noi
dovevamo stare ad ascoltare. Sono riuscito ad imparare il russo, lo
capivo bene e spesso facevo da interprete ai miei compagni. Sono stati
tempi durissimi. Non avevamo molto cibo e, per di più, dovevamo donare
il sangue. Me la sono cavata perché stavo in cucina e riuscivo a mettere
qualcosa in più sotto i denti".
****************************************************************************************************************
Intervista al Generale Martini,
prigioniero del campo di Suzdal. A cura di Maria Paola Gianni
Generale Martini, qual
è il particolare più significativo che ricorda al momento della cattura?
“Era il 21 dicembre 1942. I carri sovietici avevano
cominciato l’azione di “schiacciamento”. Non c’era tempo da perdere, non
dovevamo far cadere la bandiera in mano al nemico. Strappammo il drappo
con le unghie e con i denti e ciascuno di noi ne prese un pezzo e lo
mise sul petto. Spezzammo l’asta e seppellimmo la freccia scavando nella
neve e nella terra. I sovietici, infatti, si dilettavano a trascinare
nel fango la bandiera del nemico, in segno di vittoria e di forza. Alla
fine della guerra i russi fecero sfilare per le strade di Mosca la massa
dei prigionieri tedeschi, e poi buttarono nel fango tutte le bandiere
naziste. Ancora oggi sono tenute in mostra nei musei sporche di fango,
così come ci sono ancora le bandiere prese a Napoleone, perché loro non
dimenticano mai. Ma i musei della ex Unione Sovietica non espongono
bandiere italiane, perché non sono siusciti mai a prenderle”
Cosa accadde appena
catturati?
“Con la baionetta
gelida ci strapparono subito di dosso il cinturino dell’orologio, poi ci
disarmarono, e iniziò la marcia del “davai” (avanti). Eravamo sfiniti
dalla fame, dal freddo e dalla tensione nervosa. Per fortuna i
“valenchi” che mi aveva portato il mio attendente a Popowka mi tenevano
i piedi caldi. In Albania, avevo avuto il congelamento di 2° grado. Fin
dagli inizi ebbi la sensazione che ben pochi saremmo rientrati in
Italia. Oggi so che degli italiani fatti prigionieri tra il ’42 ed il
’43, dopo quattro lunghissimi inverni trascorsi nei “gulag” sovietici,
ne
è tornato in Patria solo uno su dieci: il 90% dei prigionieri è stato
trucidato, uomini morti di fame e di stenti, sterminati dalle tremende
epidemie scoppiate nei campi di concentramento. Quanti di noi morirono
vittime della ferocia delle scorte, del freddo sempre al di sotto del
20° sotto zero e della fame che ci attanagliò lo stomaco e le viscere
dall’inizio alla fine?Io e coloro che mi furono vicini fummo certamente
salvati da quelle zollette di zucchero e chiodi di caffè che erano
gelosamente custoditi da me in fondo al tascapane che portavo a tracolla
e dal quale non mi separavo mai. Molti di noi lamentavano piaghe alle
estremità, congelamenti al naso, alle orecchie, alle mani, alle parti
intime. L’unica volta che durante le marce ci diedero qualcosa da
mangiare, si pietrificò: appena versato nella gavetta gelata, il mestolo
di grano bollito diventò immediatamente un pezzo di ghiaccio in fondo al
recipiente e ci misi diversi giorni per finirlo”.
E finite le marce del
“davai”?
“Arrivammo ad una stazione. Ci stiparono come bestiame, cento per
vagone, stretti come sardine e partì il secondo travaglio. Il 21 gennaio
’43 iniziò il “lavaggio naturale del cervello”, o meglio “la fase di
rinascita biologica”, termine più appropriato, perché i sovietici
sapevano benissimo che il tifo ha la caratteristica particolare di far
rinascere a nuova vita i soggetti che, riusciti a superare la fase
critica, sopravvivono alla malattia. Indubbiamente, già in precedenza, i
sovietici avevano sfruttato scientificamente quelle caratteristiche
della malattia nei loro gulag politici di rieducazione.Si trattava di
saper sfruttare gli effetti biologici determinati dalla malattia sui
malcapitati superstiti. Arrivati a destinazione, dopo tutte le misure
preliminari quali la schedatura, fecero chiudere le porte del monastero
che ci “ospitava”, dopo di che ci riunirono in un salone sull’ingresso
del quale campeggiava lo stemma con la scritta “Proletari di tutti i
paesi, unitevi!”. Quel locale venne chiamato “club”, e come tale, con
l’aggiunta della dicitura che ne mascherava la reale funzione, di
centrale della propaganda comunista, “gruppo antifascista”. Ridotti a
larve di uomini, eravamo molto più vulnerabili ed il rischio di
assimilare le teorie del marxismo-leninismo era alto, c’erano
altoparlanti inneggianti al comunismo e volti ad infangare la dottrina
fascista. Aprirono anche una biblioteca e crearono un gruppo
“cosiddetto” antifascista, che poi era l’anticamera per diventare
comunisti”.
Come era la vita nei
gulag?
“Era un inferno e i prigionieri, eccetto quelli che si vendevano per un
tozzo di pane, erano diventati larve umane. Le condizioni igieniche
erano terribili, i parassiti continuavano a tormentarci, avevamo sia la
barba che i capelli lunghi, le unghie dei piedi e delle mani incarnite,
il naso gocciolante. Quando nel nostro campo di Suzdal n. 160, in
provincia di Vladimir, vennero riuniti tutti gli alti ufficiali
provenienti dagli innumerevoli lager sparsi in Europa e in Asia, appresi
simili sventure patite da altri prigionieri provenienti dai gulag. Nel
campo di Suzdal fummo sistemati in 15-20 per ciascuna delle celle dove
una volta i frati alloggiavano singolarmente. Nudi e tremanti, ci
rendemmo conto di essere ridotti a quattro ossa appena attaccate tra di
loro dai tendini ormai anch’essi rilassati; non più muscoli, ma pelle
attaccata alle ossa…”
Come si è salvato?
“Se io in questo momento le sto parlando lo devo a un uomo che era
prigioniero con me in Russia, il capitano Emilio Lombardo, classe 1912,
del Distretto di Messina. Allora Lombardo aderì al comunismo, entrò nel
gruppo antifascista e fu mandato a Mosca. Aveva percorso tutte le tappe
per diventare un uomo di fiducia di Paolo Robotti, il cognato di
Togliatti, il quale aveva la sovrintendenza a tutti i prigionieri.
Quando siamo arrivati a Vienna, Palmiro Togliatti, alias Ercole Ercoli,
alias Mario Correnti, disse a Robotti che non voleva veder tornare gli
ufficiali italiani, per non far raccontare loro l’accaduto. Purtroppo
non ci sono documentazioni scritte, ma Togliatti, nei primissimi giorni
del luglio ’46, decise di dirottarci in Jugoslavia, nelle foibe di Tito,
dov’era facilissimo far scomparire ogni traccia. Per fortuna Lombardo,
grande amico e confidente di Robotti, riuscì a capire la vera
destinazione della nostra tradotta e si precipitò al comando alleato,
per chiedere aiuto. Mi ricordo una gran frenata del treno a Vienna, gli
inglesi, con le armi spianate contro i russi, hanno fermato la tradotta
e ci hanno liberato. Eravamo più di 570, tutti ufficiali italiani, tutti
scampati alla morte”.
Com’erano i russi?
“Vi era una netta distinzione tra i russi comunisti e i non comunisti.
La massa della popolazione era anticomunista, ospitale, rispettosa. I
russi iscritti al partito, invece, erano in gran parte violenti e
sanguinari, a causa della propaganda loro impartita che descriveva gli
occidentali, cioè i borghesi capitalisti, come tiranni”.
E l’Esercito Rosso?
“Nell’Esercito Rosso la differenza era ancora più netta. Ecco perché chi
cadde prigioniero di truppe regolari subì una sorte migliore di chi finì
in mano alle truppe della Nkvd, la polizia segreta russa, equivalente
alle SS naziste”.
I famosi “vagoni della
morte”?
“Da quei carri si levava l’urlo implorante “vadà! Vadà!” (acqua!
Acqua!). Io so che cosa accadde sulla tradotta ove mi trovavo, che fece
scalo alla città di Vladimir. Lungo il tragitto, durato circa quindici
giorni, le scorte aprivano i vagoni solo per scaricare i morti: li
buttavano giù sul marciapiede ghiacciato. Il rumore dei loro crani che
battevano a terra è un altro incubo per la mia memoria. Allo scalo di
Vladimir scaricarono circa cinquecento cadaveri che vennero sepolti in
una fossa comune che ora è diventata un parco pubblico”.
Ci sono ancora vivi,
in Russia, soldati dell’Armir?
“Una crudele e subdola propaganda comunista per oltre cinquant’anni ha
fatto credere ancora vivi ed eventualmente con famiglia moltissimi degli
italiani che non avevano fatto ritorno. D’altra parte molte famiglie
preferivano credere a quelle inverosimili bugie, piuttosto che sapere e
realizzare che i loro cari non c’erano più”.
Qual è la differenza
tra un campo di concentramento russo e uno nazista?
“Quando gli italiani che erano prigionieri dei tedeschi sono stati
liberati dai russi, ciascuno di loro aveva ancora: un tascapane, un
cucchiaio, una gavetta, una forchetta, un gavettino. Dopo due giorni che
passavi in mano ai sovietici spariva tutto, non avevamo più un cucchiaio
per mangiare la minestra. Noi in prigionia non avevamo nulla. Tanto per
fare un esempio, le mie unghie crescevano e non sapevo come tagliarle, e
non avrei nemmeno avuto il tempo per pensare di tagliarle anche se
avessi potuto, perché l’unico mio pensiero era quello di trovare
qualcosa da rosicchiare per sopravvivere. Non c’era nemmeno la
possibilità di lavarsi, eravamo delle bestie, io camminavo a quattro
zampe. I sovietici eliminarono tutte le salme dei prigionieri di guerra,
perché gettate nelle fosse comuni. I nazisti uccisero barbaramente
milioni di ebrei, mentre Stalin ne uscì con le mani pulite, perché non
ha usato le camere a gas, ma li ha fatti morire per via naturale.
Inoltre, siccome l’Inghilterra e l’America erano alleati, hanno avuto
tutto l’interesse che non trapelasse nulla di quanto accaduto in Unione
Sovietica, tutti sapevano, ma a nessuno è convenuto parlare. Dai lager
nazisti arrivava regolarmente la posta, meno che nelle grandi battaglie
o durante l’occupazione tedesca a Roma, dai prigionieri dei lager russi
non è quasi mai arrivata né una lettera, né una cartolina. Molti degli
italiani che morirono per malattia mentre erano nei lager nazisti
nell’Europa dell’Est sono stati regolarmente seppelliti in cimiteri, e
non in fosse comuni, vicino ai campi di concentramento. Caduto il muro
di Berlino queste salme italiane sono rientrate, perché sono state
ritrovate non solo le documentazioni di morte, ma anche le singole tombe
con le rispettive ossa. Vuol dire che i tedeschi seppellivano umanamente
le loro vittime”.
***********************************************************************************************************************************
Cannibalismo nel campo di
Krinovaja. (Guido Maurilio Turla - Cappellano del Battaglione
Saluzzo - da "7 Rubli per il cappellano" (Longanesi - 1970)
Una sera degli
ultimi di febbraio (1943), un alpino della Valcamonica viene a
scongiurarmi di seguirlo nell'alloggiamento soldati. "Venga subito,
padre; vogliono mangiare mio cugino. Compagni, pazzi e inferociti dalla
fame, attentano alla sua vita". Lungo il percorso si notano evidenti
tracce di antropofagia: scheletri decapitati, braccia e gambe spolpate,
ventri squartati, brandelli di membra abbondanati tra detriti di ogni
genere. L'alpino mi racconta di scene ributtanti che avvengono
nottetempo. Suo cugino, uscito dal campo a lavorare, è stato colpito a
fucilate da una guardia russa, nell'atto di lasciare la fila per
raccogliere patate gelate ai margini della strada. Ne ha riportato una
gamba stroncata ed è in pericolo di vita.
Al mio arrivo
nell'alloggiamento, quattro forsennati tentavano di forzare la porta di
una stalla con un legno appuntito, usato come leva. Il sangue di cui il
ferito ha segnato il percorso, li ha richiamati alla porta, dietro la
quale altri invasati difendono come un tesoro la sorgente di quel
sangue. La mia presenza convince i disgraziati a desistere dalla
mostruosità; riesco a far loro comprendere che quello che stanno facendo
è un delitto orribile, che macchia la loro coscienza di cristiani e di
italiani. Tornano a poco a poco, vergognosi, i se stessi. Ora non
pensano più a bere il sangue del moribondo: pregano con disperata
invocazione. Il ferito è in agonia, assistito da qualche amico e dal
cugino. Gli uomini che occupano quella baracca sono complessivamente una
ventina. Il moribondo ha coscienza di quanto avviene attorno; mi prega
di salvarlo dalla ferocia dei cannibali. Lo tranquillizzo e accolgo la
sua confessione; con lui assolvo tutti quelli che hanno le ore
contate.....
In un'altra
occasione... Un alpino aveva con sé un fratello; stavano sempre insieme,
si parlavano continuamente, come se avessero tante cose da dirsi.
Ciascuno aveva giurato all'altro di difendere il corpo contro gli
assalti dei bevitori di sangue e dei mangiatori di visceri. Il servizio
di sorveglianza, istituito (dagli alpini) per evitare tali eccessi, non
arrivava dappertutto; ogni mattina si trovava qualche cadavere mutilato.
Uno dei due fratelli si ammala, i compagni cominciano ad avvicinarsi al
degente, ne fiutano la fine. Egli muore infatti dopo una decina di ore.
E' già notte, nessuno sarebbe venuto a vedere quello che succedeva là
dentro. Il fratello superstite rimane desto, con le spalle al muro,
tenendo nell'arco delle gambe divaricate e con i piedi ben puntati
contro il suolo, il corpo ratrappito del morto.
Lottando contro
il sonno tiene d'occhio i compagni che intorno a lui fanno finta di
dormire. In realtà alcuni fra essi aspettano il momento buono per
impadronirsi del cadavere e cuocerne i visceri sul coperchio della
gavetta. Verso l'alba vanno in due a parlamentare con fratello. Gli
dicono che non è il caso che egli continui in quello sforzo, che bisogna
togliere il morto di mezzo, si sarebbero incaricati loro due della
sepoltura. Gli parlano dolcemente, con inconsueta bontà. L'alpino stanco
di quella notte, di quel dolore, di quella mostruosa paura, cede alle
insistenze, consegna il cadavere di suo fratello e ridendo si lascia
cadere a terra, è impazzito. |