Era un pomeriggio d'estate del 1978, da
qualche anno io e mia moglie ci recavamo sulla collina di Verzuolo, dove mia moglie aveva ereditato da sua mamma una piccola
baita, parte di una piccola borgata
contadina dove, da sempre vissero i suoi nonni e due suoi zii, entrambi della Cuneense e mai più ritornati dalla Russia.
Da poco, le porzioni di fabbricato dove abitavano i nonni di mia moglie, entrambi morti tra il 1938 e il 1946, erano stati venduti da una zia ad un vicino che abitava nella stessa borgata, il quale aveva iniziato ad eseguire i primi lavori di sgombero..
Ricordo che quel pomeriggio, quando entrai con il mio maggiolino nel cortile della borgata, vidi al centro un grande baule in legno in fiamme, scesi velocemente dall'auto e corsi verso il baule... all'interno stavano bruciando molti documenti, lettere, abiti, insomma tutto quel poco che avevano i nonni di mia moglie che da anni avevano custodito in quel baule.
Immediatamente senza tener conto del vicino e nuovo proprietario, che stupefatto e senza parole rimase immobile, con un bastone buttai fuori dalle fiamme, lettere, cartoline e altri ricordi, tipo ferri per acconciature femminili, medagliette, ecc.. ma purtroppo la maggior parte del materiale andò distrutto.
Nei giorni seguenti, con calma iniziai a leggere quelle lettere e quelle cartoline che, parlavano di Alpini e di Russia, ne rimasi commosso e non solo, scoprii solo allora quanto terribile fu la campagna di Russia, da quel momento iniziai ad interessarmi indagando in tutte le direzioni, raccolsi quel poco che era stato scritto sulla Cuneense, intervistai molte persone e.. Mi resi conto che la maggior parte delle persone non sapeva nulla o molto poco se non le poche frasi costruite tipo: " sono morti per il freddo.. non avevano armi.. erano straccioni..ecc ".
Sui libri di Storia la tragedia del Corpo Alpino in Russia non esisteva, ho controllato
negli anni 80 e 90 testi usati fino al terzo grado di istruzione (scuola media superiore) e, vergognosamente non esisteva nulla,
nessuno sapeva con esattezza la composizione di questa Divisione, quanti
uomini, muli, armi e mezzi furono inviati in Russia, nei comandi alpini
non esisteva più nulla, la poca bibliogafia riportava numeri
aprossimativi, chi 15000, altri 16000 altri ancora 16500.. Poi un giorno
di inizio anno 2000, riprendendo casualmente da un libro che riportava
in allegato una fotografia di un documento con numeri e ideogrammi della
Cuneense, eseguiti dall'allora Colonnello Lorenzo Navone, mi trovai tra
le mani la composizione esatta della Cuneense, il Colonnello aveva
racchiuso in un semplice foglietto con ideogrammi l'esatto quadro di
battaglia della Cuneense al 25 luglio 1942, un giorno prima della
partenza delle 52 tradotte !
Da questo documento ricavai con precisione
gli uomini di truppa e gli ufficiali, in totale 17460
Alpini, il numero dei quadrupedi da sella da tiro e da
soma, il numero delle armi, fucili, mitragliatrici, mortai, cannoni e
altri pezzi d'artiglieria, mezzi di trasporto, bicilette, motocicli,
carri, autocarrette e camion L 39. Fu per me un' enorme soddisfazione,
finalmente, a oltre sessant'anni dalla tragedia venivo a conoscenza di
dati che nessuno prima aveva mai riportato.
Infine nel 2007, con la maestosa adunata alpina di Cuneo, misi insieme il materiale raccolto nei vent'anni precedenti e lo trasformai nel sito web che ora state vedendo.
riccardo giulio baldi
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Nonostante il
contributo italiano alla campagna di Russia non potesse essere che
irrilevante, Mussolini con incosciente insistenza, più volte avanzò la
richiesta a Hitler affinché l'Armir fosse inviato in prima linea,
pretendendone il "sacrificio di sangue" (dalla lettera di Mussolini a
Hitler del 6 novembre 1941, in "Documents on German Foreign Policy"). Da
questo aiuto (non richiesto dalla Germania) i tedeschi seppero servirsi,
in molti casi, con molto cinismo, come accadde nella battaglia di
Stalingrado dove, la VI armata di Von Paulus ormai disfatta, per
proteggersi la ritirata si servì degli italiani, mandandoli contro una
morte quasi certa pur di tenere il fronte e proteggere la loro fuga.
La prima tradotta
diretta in Russia con gli Alpini della Cuneense, partì da Mondovì il 26
luglio 1942. Tanti bravi ragazzi della nostra Provincia, nati tra il
1910 e il 1922, partirono in una guerra, come ci spiega Nuto Revelli nel
suo capolavoro "Gli Alpini del Don", in cui "ignoravano tutto del
fascismo. Nei tempi facili non appartenevano alla "gioventù del
littorio": vivevano liberi, lontani dai grandi fatti nazionali. Non
avevano nemmeno la camicia nera; a malapena conoscevano poche frasi
fatte, i miracoli di Mussolini e basta". Così scrive anche Ernesto
Ragionieri nella "Storia d'Italia Einaudi": "…dalle raccolte di
lettere dei soldati italiani caduti e dispersi, il tratto che più
colpisce, al di là dalle significative ma isolate espressioni di
ribellismo, sia esso indistinto o consapevole, è il generale e uniforme
disorientamento, l'assoluta e completa ignoranza sui motivi di quella
guerra…". Ignoravano, continua Nuto Revelli: "che la guerra
contro l'Unione Sovietica era una guerra totale. Ignoravano che l'ordine
nuovo di Hitler era il nostro programma, che tre milioni di prigionieri
sovietici vennero assassinati o fatti morire di fame e di stenti, che
milioni di civili russi vennero deportati in Germania. Ignoravano che
nelle retrovie sovietiche la popolazione moriva di fame. Ignoravano che
venti milioni di russi pagarono con la vita la follia di Hitler e di
Mussolini, che sei milioni di ebrei morirono nelle camere a gas, nei
forni crematori, nei campi di sterminio nazisti". I nostri Alpini
non sapevano della "soluzione finale", non sapevano che esistevano i
campi di sterminio, non capivano cosa facessero, nelle stazioni, quelle
persone con al braccio la stella gialla di David. Con loro sparì
un'intera generazione di contadini e montanari; la divisione alpina "Cuneense"
sul fronte russo era di circa 18.000 uomini, solo in 4000 ritornarono…
LE DATE.
1941, 10 luglio. Da Verona, a mezzanotte, parte il primo convoglio
del Csir (Corpo di spedizione italiano in Russia). Tre le divisioni:
Pasubio, Torino e Celere; 2900 ufficiali, 58.000 soldati di truppa, 4600
tra cavalli e muli, 5500 automezzi e 83 aerei da ricognizione e caccia.
5 agosto: a scaglioni, i soldati italiani arrivano nella Moldavia
romena, a nord ovest di Jassy. 11 agosto: primo scontro con
l'Armata Rossa, è la Pasubio ad avere il battesimo del fuoco. 27
agosto: anche i reparti aerei vengono impegnati in combattimento.
22 settembre: il Csir è totalmente impegnato nella battaglia di
Petrikova. In otto giorni di combattimento gli italiani hanno 87 morti e
190 feriti. 2 ottobre: la Celere, la Pasubio e la Torino,
attraversano il fiume Dniepr; inizia a nevicare, le strade si
trasformano in piste di fango. 11 ottobre: l'esercito italiano è
a Pavlograd. 17 ottobre: l'Armata Rossa viene attaccata dalla
cavalleria italiana con i battaglioni Savoia e Lancieri Novara. 23
ottobre: battaglia di Gorlokowa e Rikovo; i battaglioni di
cavalleria effettuano diverse cariche. 5 novembre: contrattacco
russo dopo sei giorni costringe gli italiani alla ritirata; diverse
centinaia i morti italiani. 5 dicembre: il Csir vince la
battaglia di Chazepetovka, i morti sono 135, i feriti 523, i congelati
884 e 10 i dispersi. 25 dicembre: attacco all'alba dell'Armata
Rossa. Gli italiani ripiegano poi il 27 riconquistano le posizioni e
passano al contrattacco. La battaglia si conclude il 30 dicembre: le
perdite italiane sono di 168 morti, 715 feriti, 305 congelati e 207
dispersi.
1942, 15
febbraio. Arrivano dall'Italia
il 6° reggimento bersaglieri e il 120° artiglieria motorizzato. Il 21
febbraio arriva anche il battaglione sciatori Monte Cervino. 4 giugno:
prima azione di guerra nel Mar Nero: sommergibili e Mas attaccano con
successo unità russe, ma a metà novembre il ghiaccio costringe la
flottiglia a rientrare in Crimea; ceduti sommergibili e Mas alla marina
tedesca, gli equipaggi rientrano in patria. 9 giugno: nasce
l'Armir (Armata italiana in Russia); il generale Italo Gariboldi è il
nuovo comandante dell'Armata (in sostituzione del generale Giovanni
Messe). 26 luglio: partono i corpi alpini Cuneense,
Julia e Tridentina. 24 agosto: il reggimento Savoia
Cavalleria carica i sovietici presso Isbuscensky, nel bacino del Don.
19 novembre: l'inizio della fine. I russi rompono il fronte della
terza Armata Romena e della quarta Armata tedesca; per il fronte del Don
è l'inizio della fine. 10 dicembre: l'Armir è schierato da
220.000 uomini e 7000 ufficiali: sul fronte un soldato ogni sette metri.
11 dicembre: l'Armata Rossa attacca l'Armir; 16 dicembre,
i russi attaccano con carri armati; la difesa dell'Armir vacilla.
19 dicembre: i russi con una manovra aggirante raggiungono le
retrovie italiane e passano all'attacco; inizia la ritirata italiana,
le prime colonne in ritirata sono formate dalle divisioni Ravenna,
Pasubio, Torino, Celere e Sforzesca.
Il Corpo d'Armata Alpino
(Cuneense, Julia e Tridentina) è ancora schierato sul fronte del Don.
1943, 15
gennaio. I carri armati
sovietici attaccano Rossosch, sede del comando del Corpo d'Armata Alpino.
17 gennaio: il Corpo d'Armata Alpino è completamente
accerchiato, alle ore 10 il generale Gariboldi dà l'ordine di ripiegare
(in quei giorni, la temperatura varia da -30 a -40 sotto zero).
18 gennaio: la situazione diventa tragica, colonne interminabili di
uomini ripiegano disordinatamente fino al 25 gennaio,
mentre la
Cuneense e la Julia vengono sacrificate nella difesa per dar modo agli
altri Corpi di ritirarsi.
Iniziò così per
migliaia di nostri alpini una marcia disumana verso le retrovie, in
molti luoghi le nostre Compagnie Alpine combatterono come tigri cercando
disperatamente la via del ritorno, furono scontri spaventosi, Alpini
contro carri armati russi, moschetti "91" contro mitragliatrici...uomini
senza mangiare o comunque con pochissimi alimenti, molti di loro con
mani o piedi congelati furono coinvolti in crudeli combattimenti, spesso
all'arma bianca....in queste piccole o grandi battaglie in migliaia
morirono, il grosso delle nostre divisioni venne poi preso prigioniero
e costretto a lunghe e mortali marce, come le definisce Arrigo Petacco
nel suo libro "L'Armata Scomparsa", le "marcie del Davai". Davai!
(camminare!) urlavano i soldati russi ai nostri alpini e, ai ritardatari
raffiche di mitra. Dopo settimane di marcia sulle strade ghiacciate e
nella neve vergine, cadendo e rialzandosi con i piedi avvolti in stracci
e con il viso spaccato dal freddo, arrivavano alle stazioni ferroviarie,
dove su ogni vagone stipavano cento alpini. Arrigo Petacco così descrive
nel suo libro le testimonianze raccolte: "…i carri più attrezzati
disponevano di due tavolacci a mezza altezza per aumentarne la capienza
dividendo i prigionieri in due strati. Dove già non esisteva, qualcuno
provvide a realizzare una latrina praticando un foro a colpi d'accetta
che tuttavia non tardò ad essere otturata da mucchi di escrementi e di
urina gelata. I decessi erano numerosi e continui. Ogni mattina, quando
la guardia apriva il portellone, la sua abituale domanda era: Skol'ko
kaputt?, quanti morti stamane? I cadaveri, ritti ancora in piedi
sorretti dalla ressa, venivano raccolti in un vagone di coda per essere
poi sepolti lungo la scarpata ferroviaria o addirittura gettati dal
treno durante il viaggio. L'eccezionale mortalità allargò gli spazi dei
sopravissuti…". La maggior parte che sopravvissero a questi lunghi
viaggi, morirono poi nei campi di prigionia, dal freddo, dalle malattie
e dalla fame, nessuno mosse "un dito" a loro favore, anzi, da
testimonianze venute fuori solo da pochi anni, sembra che chi
avrebbe potuto far qualcosa per salvarli (Togliatti?), al contrario li
trattò come "fascisti", nemici che dovevano morire...il concetto più o
meno era: meno Alpini ritornano in patria, più forte sarà l'odio dei
familiari e della popolazione verso il regime che in quella tragedia li
trascinò...La prima parte del "progetto" funzionò sicuramente...pochissimi
furono i sopravvissuti ai campi di prigionia russi. Nello scrivere
questi fatti mi auguro ancor sempre che qualcuno si sia sbagliato, o
abbia interpretato male il rapporto Togliatti - Stalin, diversamente
nonostante tutta la buona volontà nel proiettarsi in un determinato
periodo storico dove, quello che a noi ora sembra pazzesco, in quegli
anni non lo era affatto .... c'è da inorridire...e, da vergognarsi...
La guerra poi
finì, specialmente nelle grandi città, dal mattino alla sera migliaia di
donne e genitori attendevano i treni del ritorno; migliaia di mani
alzate con le fotografie del marito, del fratello, del figlio. In molti
giornali, accanto ai ritratti dei dispersi, l'annuncio…"se qualcuno
riconosce questo volto è pregato di rivolgersi alla famiglia…".
Sulle nostre montagne e colline, mogli e genitori, in continua attesa a
scrutare il sentiero di casa, ad aspettare, sperare, non
rassegnarsi…Sulla collina di Verzuolo, un papà di nome Francesco, cinque
figlie e due maschi: "Eduardu e Notu", entrambi partiti per la Russia:
senza di loro come poteva continuare i lavori in campagna... Chi avrebbe
accudito al bestiame? Tutti i giorni papà Francesco rimaneva ore e ore a
guardar la strada, aspettando i suoi amati figli…che non sarebbero mai
più ritornati. Papà Francesco morì di dolore. In provincia di Cuneo vi
furono migliaia di "papà Francesco"…
Per i pochi
fortunati che riuscirono a ritornare a casa, la Campagna di Russia li
trasformò per sempre, come ebbe modo di dire in un'intervista a Nuto
Revelli, l'alpino Castellino Giuseppe, classe 1916, appartenente alla
Nona Compagnia del Battaglione Mondovì: "…seguono giorni e giorni di
confusione. Arriva gente da ogni parte, il cortile sembra un deposito di
bicilette. Tutti vogliono sapere, ma dopo mezz'ora che parlo mi mancano
le forze. Mi chiedono <come stavate là?>, e rispondo solo <guardatemi>.
Le notti sono lunghe, non dormo mai. La sera dell'8 sul 9, la vigilia
della festa della Madonna, mio padre mi annuncia un pranzo speciale per
l'indomani, peperonata e polenta. Vado a raccogliere i peperoni
nell'orto, ne mangio tanti, crudi come li raccolgo. Così presto la
pancia si gonfia come un pallone, proprio come avveniva nei campi di
Russia. Quando arriva mia madre sono più morto che vivo. Ma poi tutto
passa. Sto fermo giorni e giorni, a guardare gli altri che lavorano.
Cresco un chilo al giorno. Dopo un mese non vedo più le punte delle
scarpe. Ma sono senza forze. Infine mi sgonfio. (…) La guerra. Vado al
ponte della Stura, che è alto, piuttosto di rivivere la mia guerra. Se
mia moglie compra un figlio gli tiro il collo piuttosto che debba vivere
come me. Abbiamo un <governo>, una società ingiusta. Non posso lavorare,
sono più morto che vivo. Ho una croce di guerra che non serve a niente.
Sono invalido al lavoro per due anni. Ma nessuna pensione di guerra. Dei
tedeschi non voglio sentir parlare, hanno poco da fare con me. I nostri
che vogliono il comunismo vorrei portarli in Russia a mangiare un po'
del pane della <norma>, là gli insegnano. Siamo mal ridotti noi pochi
della Russia. Tbc oppure cronici. Chi è un po' sano ha un altro debole,
è alcolizzato. Sto in piedi a forza di iniezioni. Nefrire cronica, rene
grinzo, malaria, batticuore che ogni notte mi fa scappare e la moglie
che grida: "Ma cos'eti, ma cos'eti", e mi sento morire. Ecco cos'è la
guerra".
Ora, ci parlano
di Loro gli innumerevoli cippi sparsi in tutte le nostre vallate alpine,
alcuni appoggiati alle chiese e nei paesi di pianura, con centiniaia,
migliaia di nostri cognomi, ricordati, non sempre, una volta all'anno
con una corona di fiori...Troppo poco....questo mio piccolo ed umile
contributo, vuole essere un veramente "non dimenticare"... ricordiamoci
di Loro, dei pochi sopravvissuti, del loro sacrificio, non è retorica,
vi assicuro...ONORE ai CADUTI IN RUSSIA della DIVISIONE ALPINA CUNEENSE.
Riccardo baldi
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