Divisione Alpina Cuneense  
Campagna di Russia

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Verso i Gulag..

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Gulag (dal russo ГУЛАГ: Главное Управление Исправительно— Трудовых Лагерей, "Glavnoye Upravleniye Ispravitelno-trudovykh Lagerey", "Direzione principale dei campi di lavoro correttivi") era il ramo della Polizia dell'interno e servizio di sicurezza sovietico che costituì il sistema penale dei campi di lavoro forzato. Benché questi campi fossero stati pensati per criminali di ogni tipo, il sistema dei Gulag è famigerato soprattutto come mezzo di repressione degli oppositori politici dell'Unione Sovietica.

Il Dottor Egidio Franzini, ufficiale degli alpini, pubblicava nel 1946 nel suo libro "In Russia": " A Krinovaja la tragedia dei prigionieri italiani toccò forse il suo vertice massimo. Nel delirio provocato dal digiuno vennero commessi atti difficilmente immaginabili o descrivibili. Episodi di cannibalismo vennero limitati costituendo squadre di vigilanza armate di barre metalliche. Un artigliere dipendente del Te. d'artiglieria Eugenio Corti, XXXV Corpo, 61 Gruppo, già presso il Comando 2° Battaglione dell'80° Fanteria, ad Abrassimow riferisce che durante la marcia fra Arbusow e Tcerchowo, tra i prigionieri in mano russa si registravano tre casi di antropofagia collettiva. Altri casi si dicono commessi in una chiesa parte diroccata, a due giorni di marcia oltre il Don, dove i prigionieri erano così pigiati da faticare a starvi in piedi. Altri episodi vennero riferiti in Tartaria e a Kazan sul Volga. Il P.V. assicura di aver veduto più volte arrivare vagoni di prigionieri rumeni; i morti nei carri bestiame, erano "aperti" dai compagni folli per la fame. Solo ai primi giorni di maggio del 1943, migliorarono le condizioni generali in quasi tutti i campi di prigionia

 

 

prigionieri

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17 gennaio, tramonto. Lasciamo il fronte e ripieghiamo a scaglioni successivi verso il centro raccolta del 1° Alpini. Nei pressi di Topilo la pista è ingombra, congestionata. Il freddo è intenso, oltre 30 gradi sotto zero, ma non lo sentiamo tanto siamo eccitati. Più avanti si nota un senso di orgasmo generale. I reparti sono disciplinati e gli uomini ancora freschi. Ma si deve cominciare ad alleggerire le slitte; la pista si cosparge di cassette, di barili, di zaini.

18 gennaio – Tra Topilo e Nowa Kalitva primo scontro con i russi e primi prigionieri…. Puntiamo verso Nowa Kalitva dove ci incontra il generale Battisti. Stiamo per essere accerchiati. Avvengono i primi scontri con pattuglie russe. I reparti si accavallano. Ecco i primi morti. Sono fermi ai lati della pista, seduti nell’atto di pisolare. Quando cerco di scuoterne uno lo sento freddo e lo vedo cadere di fianco, senza reazione, assiderato; e altri ancora. Incrociamo reparti russi in avanzata. Quando ci scorgono urlano ebbri, ci esplodono le armi addosso. Avviene un incidente. Un soldato mette un piede su una bomba sepolta nella neve la quale scoppia tra noi e loro. Urla di feriti. I russi pensano ad un nostro attentato. I russi mettono nelle nostre file un confidente che parla italiano. La divisa italiana si confonde benissimo con la massa. Camminiamo verso Rossosc che raggiungiamo. Per la strada lunghe colonne di carri armati pesanti con soldati ebbri dalla vittoria. I cingoli ci sfiorano paurosamente. Qualcuno dei nostri soldati viene maciullato così, per ischerzo.

All’entrata in Rossosc la colonna viene fatta inoltrare verso est. Incomincia il calvario; spesso senza motivo alcuno i russi ci sparano addosso. Molti cadono. Gli innocenti soldati italiani, a decine, si abbattono sulla neve. Spesso incontriamo dei gruppi di russi avvinazzati. Ci vengono vicino, ci sputano addosso, ci picchiano, sparano. Non vedono che siamo dei prigionieri innocui? E la famosa fratellanza verso il proletariato mondiale? No, noi non siamo delle persone; noi siamo delle cose, dei bersagli da tiro a segno. Ma neanche i nostri aguzzini sono delle persone. Essi sono delle belve. Mentre si marcia ci fanno sostare, di tanto in tanto a distendere sulla neve. Dei poliziotti corrono in mezzo a noi con le pistole in pugno, preceduti da cani vigorosi e feroci. La strada si cosparge di cadaveri, nudi, mutilati. Alla fine di ogni tappa dormiamo all’aperto o in stalle, gli uni accanto agli altri, per riscaldarci col nostro stesso calore, col nostro fiato stesso. E così marciamo per giorni. Impossibile descrivere queste marce. Si va senza ricevere alcun alimento, con 35 gradi di freddo, angariati e tormentati da russi che tutto possono sul nostro corpo. Nessuno li controlla. Nessuno ci protegge. Chi potrà credere che abbiamo marciato per sette dieci giorni mangiando solo qualche boccone di pane offertoci dalla popolazione? E del resto, se me lo avessero raccontato altri, se non la avessi io stesso vissuta questa avventura certamente non crederei. Ma noi reduci, noi ex prigionieri dell’ARMIR lo sappiamo bene tutti quanto abbiamo patito e quanto abbiamo resistito!

Siamo al settimo giorno di marcia. Sono completamente privo di forze, i baffi, la barba, i capelli sono diventati un solo blocco di ghiaccio che mi attanaglia il volto. Mi sento il cuore cedere e la testa leggera. Mordo la neve a larghi bocconi per stancare le mandibole e far tacere i crampi al ventre. Non capisco più nulla, vaneggio, deliro…Dicono che chi non parte viene freddato dalla scorta. Facciano pure…Giungiamo a Vorobioka, vengo ricoverato nell’ospedale che non è nient’altro che una baracca di legno. Non c’è organizzazione né disciplina. Per far presto ti pestano, ti torturano. Ad ogni bagno perdiamo tre, quattro uomini; restano morti sui tavoli del bagno. Il cuore cede e trac, senza rumore, il giovane che ti parlava sino a qualche momento prima è già freddo a terra. Il dottor Ferrarini (del comando Divisione Celere) medica ed opera nel mezzo della baracca-ospedale; una vecchia panca ed uno sgabello formano il suo gabinetto chirurgico. Il congelamento ha fatto e fa strage dei nostri arti. Piedi gonfi, marci, dai quali esce un fetido siero purulento. E senza anestesia, senza conforti bisogna operare, tagliare, asportare le parti necrotiche cancrenose. Vi sono anche le tigri. Ci guardano due giovani soldati siberiani, comandati da una sergentessa. Si divertono, all’ospedale a pestare sadicamente le piaghe dei malati, farli urlare di dolore. Battono col calcio dei fucili i moncherini di questi poveri cristi senza difesa. In preda al delirio un ungherese si allontana dal baraccone. Al mattino dopo, rientrato in sé, il disgraziato si presenta all’ospedale da solo. La sergentessa se lo prende con calma, lo conduce alla buca dei morti. Ne fa un bersaglio per il suo fucile. Spara diversi colpi finché uno raggiunge alla testa il malato e lo ammazza. Dall’ospedale-baracca Egidio Franzini venne poi condotto nel gulag di Kalac….

1° Maggio. La festa del Lavoro si svolge mentre nel campo c’è un’atmosfera di terrore. Un giovane siciliano addetto a lavori mentre attraversava il piccolo prato accanto alla cucina, è prelevato da una guardia avvinazzata che l’ha costretto a distendersi a terra e senza alcun motivo lo ha freddato con tre copli di fucile alla testa. Io stesso l’ho visto, al mattino in una pozza di sangue. Ecco come si muore. La nostra vita vale zero, meno, questa, del pidocchio che mi circola sul guibotto. 9 maggio. Veniamo caricati su di un treno. Tutto il campo viene evacuato. Al nostro arrivo eravamo circa 900; a questi se ne aggiunsero molti rastrellati nei villaggi, nel colcos. Ripartiamo in circa 200. Gli altri sono tutti morti in due mesi. Dove siamo ora ci giunge regolarmente “L’Alba”; è il giornale per i prigionieri di guerra italiani, edito a Mosca per conto del Governo Sovietico, diretto da comunisti italiani nell’URSS. Vi collaborano i principali esponenti del comunismo italiano, Ercoli (Palmiro Togliatti), Scoccimarro, Greco, Cerretti, Germanetto, Robotti, Longo ed altri. Le notizie sono quasi sempre riportate dai giornali sovietici….

Fonti. Testimonianza di Egidio Franzini, Tenente degli Alpini del 1° Reggimento, tratta dal suo libro “In Russia”. Stamperia Editrice Zanetti, Venezia, 1946


Le relazioni ufficiali dell'esercito italiano - quando prendono in considerazione la ritirata dell'Armir - si soffermano esclusivamente sull'aspetto bellico, esaltando o riportando le manovre dei vari battaglioni. Questi testi non analizzano le perdite parziali, né è dato modo di conoscere le difficoltà dei comandi nel coordinare i vari momenti della ritirata. Anche lo stesso consuntivo finale è carente di alcuni dati fondamentali per giudicare il problema nella sua interezza. Per comprendere com'è avvenuta la cattura dei reparti italiani e la fase iniziale della prigionia bisogna fare affidamento ancora una volta sulla memorialistica, che si dimostra per questo teatro di guerra un'importante fonte conoscitiva alla quale attingere.
Il momento della ritirata che noi conosciamo attraverso questi testi è particolare, non è fatto di aride cifre, di manovre tattiche, è esclusivamente un percorso umano. Dai racconti dei reduci si nota l'assenza di un comando forte che sapesse interpretare le esigenze militari e, di conseguenza, l'incapacità dei comandi di trovare rapide soluzioni ai problemi logistici. Tra i militari italiani in quei giorni serpeggiava la paura di morire, di vivere e di cadere prigionieri; nel crescendo delle difficoltà mutava il rapporto con gli alleati tedeschi, ammirati sotto il profilo bellico, ma disprezzati per la condotta da loro tenuta nei confronti della popolazione e dei prigionieri (che quasi sempre venivano fucilati). Diversi gli scontri (non solo verbali) avvenuti nel corso della ritirata. È sintomatico dell'asprezza di quel periodo quanto scrive Gabriele Gherardini nelle sue memorie: "Tirano avanti con quel poco di forza che loro rimane, si trascinano, alcuni si fermano accoltellati dai congelamenti, si lasciano andare, bestemmiano e infine si addormentano. Non si sveglieranno più. Lo sfinimento li folgora alla sprovvista con la lama gelida del nemico in agguato; sino a ieri, sino a stamane, sino a qualche ora fa non andava male del tutto, si sostenevano ancora bene e dei chilometri ne avrebbero fatti! Il pensiero del tracollo era una cosa vaga, appena apprezzabile, come ciò che si ritiene possa accadere, ma non subito, non oggi, certamente neanche domani".
Queste poche terribili righe danno l'idea dello stato di prostrazione in cui si trovavano i militari italiani nel momento in cui vennero fatti prigionieri. La loro cattura non avvenne in modo sistematico: la lunghezza della colonna degli sbandati superava i quaranta chilometri e dal momento che alcuni reparti sovietici erano giunti in profondità, poteva capitare che pattuglie sbandate catturate e lasciate in un'isba venissero liberate dal sopraggiungere del grosso delle truppe in fuga.
La maggior parte degli italiani fu catturata nel gennaio del 1943 nei valloni (in russo balke) di Valuiki. Si trattava di cospicui reparti della "Cuneense", della "Julia" e della "Vicenza". Al momento della cattura i russi erano particolarmente ansiosi di impossessarsi degli effetti personali dei prigionieri, in particolare degli orologi, mentre le fotografie erano distrutte perché considerate un simulacro del capitalismo.
Al momento della cattura i reparti tedeschi erano passati per le armi; stessa sorte toccò anche a parecchi ufficiali italiani e a militari originari dell'Alto Adige. Il resto degli italiani catturati fu rapidamente spostato all'interno per evitare che rapide controffensive potessero mutare la sorte dei prigionieri.
Prima di proseguire l'analisi occorre fare una riflessione utile per comprendere appieno i motivi per cui si verificò un'ecatombe di prigionieri. Nel corso dell'offensiva scatenata nell'inverno 1942-43 per la prima volta da quando era scoppiata la guerra le truppe sovietiche si trovarono alle prese con il problema dei prigionieri. Essendo il fronte instabile, i russi fecero immediatamente convergere all'interno le truppe catturate; privi di mezzi di trasporto, fecero loro percorrere a piedi la distanza che separava i nodi ferroviari dalla prima linea. In quelle che furono ribattezzate le marce del davai (dall'incessante invito con cui le guardie della scorta pungolavano i ritardatari) non ci si poteva fermare. Quando le forze erano allo stremo un colpo di parabellum metteva fine alle sofferenze del prigioniero: a centinaia caddero così. La neve provvedeva poi a seppellire il corpo dello sfortunato italiano. Ai tormenti della marcia si aggiunse la mancanza di cibo; il più delle volte era la popolazione dei villaggi attraversati che, mossa a pietà, dava agli italiani qualche patata bollita o del pane secco. La notte li accoglieva in gelidi capannoni, a temperature polari, e alla mattina successiva molti non si alzavano più.
Dopo qualche giorno di marcia i prigionieri arrivarono ai nodi ferroviari: molti credettero di aver posto fine alle sofferenze, ma in realtà si apriva un altro capitolo della tragedia. Gli italiani vennero fatti salire su carri bestiame e qui stipati all'inverosimile, quasi cento ogni vagone; il carro era aperto una volta al giorno e i prigionieri ricevevano un sacco di pane ammuffito e delle aringhe. Nulla da bere era loro offerto, i soldati potevano dissetarsi solo quando il treno si fermava alle stazioni e dai pertugi lasciati fra le assi potevano raccogliere della neve. Ogni mattina i carcerieri, nell'aprire la porta delle carrozze formulavano la solita domanda "Skol'ko kaput?" ("Quanti morti?"). I cadaveri erano perlopiù ammassati sulla massicciata della ferrovia e in qualche caso erano caricati sull'ultimo vagone per essere poi seppelliti alla fine del viaggio. A seconda della destinazione, i prigionieri italiani viaggiarono su questi treni da una settimana a un mese. Ricerche di storici italiani e stranieri hanno messo in luce un diverso modo di interpretare le cause di questa carneficina. Secondo gli italiani la causa era da ricercarsi esclusivamente nel regime fascista: "La responsabilità delle perdite italiane non potrà mai essere attribuita al vincitore, ma rimane su chi con deliberata incoscienza ha inviato gli italiani a combattere, insufficientemente armati e vestiti, in terra straniera per mano altrui”. Per lo storico Galitzki i colpevoli andavano ricercati nel governo sovietico: "Naturalmente non c'è giustificazione alcuna per il governo stalinista che ha lasciato morire tanti prigionieri italiani, anche se c'è stato chi ha detto che gli italiani non erano stati certo invitati in Russia; c'erano andati di propria iniziativa e pure con le armi in pugno [...]. Una parte notevole dei prigionieri italiani mori nell'inverno 1942-1943 perché furono organizzati male la loro raccolta, il loro sgombero e la loro permanenza nei campi di prigionia".

La prigionia

La Russia non aveva una "cultura della prigionia" tanto è vero che non aveva aderito alla Convenzione di Ginevra, la serie di norme giuridiche che garantivano un equo trattamento per i prigionieri di guerra siglata nel 1929. Tuttavia il Commissariato del popolo per gli affari interni (Nkvd) aveva emanato disposizioni interne in merito alla prigionia di stranieri proprio alla vigilia dell'Operazione Barbarossa.
Nonostante questo gli italiani furono internati in molti lager sparsi su tutto il suolo sovietico. Un censimento vero e proprio di questi campi non è mai stato fatto e gli unici nomi di cui siamo venuti a conoscenza sono quelli ricordati dai reduci, nomi che evocano chiaramente la tragedia di quei momenti, come Susdal, Krinowaja, Oranki, Tambow. Diversi hanno provato a redigere una mappa di quei luoghi, soprattutto nell'immediato dopoguerra al rientro degli italiani sopravvissuti. Un elenco più attendibile è quello realizzato dall'inviato della Rai Pino Scaccia nel corso della sua inchiesta sull'Armir: il cronista conta 103 campi e li numera progressivamente (in questo caso si arriva fino al 510 e ciò attesta la cifra elevata di campi di prigionia).
Valutando la ricostruzione cronologica dell'ubicazione dei campi, si nota come questi fossero disseminati su tutto il suolo sovietico. La tesi della mancata organizzazione sovietica e dell'inesperienza nel settore della prigionia è rilevabile anche nella diversa costituzione fisica dei campi di concentramento.
Analizzandone alcuni si nota come Krinowaja fosse una vecchia scuderia degli zar: i prigionieri erano alloggiati nelle stalle, enormi costruzioni rettangolari ad un solo piano che mancavano completamente di ogni genere di servizi e di assistenza sanitaria. In questa prigione furono alloggiati gli alpini catturati a gennaio, e la mortalità, soprattutto nei primi mesi di prigionia, fu altissima.
Ad Oranki (campo numero 74) venne riattato un vecchio monastero privo di muri di cinta, con una semplice serie di reticolati a protezione della costruzione. Una chiesa sconsacrata era adibita a deposito delle derrate; fu la prigione degli sbandati delle divisioni "Pasubio" e "Torino". Inusuale il lager di Tambow, in quanto non vi erano costruzioni di superficie: gli alloggi erano dei veri e propri bunker sotterranei, costruiti in prossimità di piste d'atterraggio aeree. Queste abitazioni erano inadatte a ospitare esseri umani, ma in ognuno di questi rifugi alloggiavano una quarantina di persone. Mancava completamente l'illuminazione e l'areazione e un unico ingresso metteva in contatto con il mondo esterno. Importante per essere stata la prigione degli ufficiali era il campo 160 di Susdal. Gli italiani erano alloggiati nelle celle dei monaci dell'ex monastero (Susdal era la città santa degli zar). I locali erano spogli e privi di qualsiasi comodità, ma questa situazione era di gran lunga migliore rispetto alle precedenti descritte.

Prikaz Stalin

La prigionia dei militari italiani in Russia può essere divisa in due fasi: la prima è quella relativa al ricovero nei campi di concentramento, in cui si verificò un'alta mortalità tra gli internati e che si sviluppò soprattutto nei tre mesi successivi alla cattura; la seconda - che durò molto più a lungo e si protrasse ben oltre la fine del conflitto mondiale - in cui i superstiti si ripresero fisicamente, riuscirono a lavorare e furono martellati dalla propaganda sovietica. Come abbiamo detto in precedenza, una volta arrivate ai campi le nostre truppe furono falcidiate da epidemie che fecero strage dei sopravvissuti ai combattimenti, alle marce e ai lunghi trasferimenti in treno.
L'alta mortalità dei primi mesi di permanenza nei campi è da ricercarsi in due motivazioni: il soldato italiano aveva combattuto a lungo in condizioni climatiche pessime ed era arrivato alla prigionia stremato. A questo fatto va aggiunto che i sovietici - poco ferrati in materia di prigionia - forse in un primo tempo si auguravano di sbarazzarsi dei prigionieri privandoli di cura e assistenze. In seguito le mutate condizioni atmosferiche unite al fatto che il fronte si spostava sempre più verso nord-ovest e quindi si cominciava ad intravedere una fine (seppur lontana) del conflitto, fece cambiare opinione sull'utilizzo dei prigionieri. Dai calcoli oramai accettati da tutti gli storici e da coloro che hanno vissuto sulla propria pelle l'esperienza della prigionia, non è da escludere che gli italiani arrivati ai campi superassero le 40.000 unità: di questi solo 10.030 torneranno a casa.
La prigionia dei nostri militari migliorò nell'aprile del 1943 grazie ad alcune disposizioni del Nkvd: i prigionieri ribattezzarono il provvedimento "prikaz Stalin" e sotto questa dicitura lo troviamo in numerosi testi di memorialistica. Il miglioramento fu effettivo proprio sotto l'aspetto della sussistenza e dell'approvvigionamento. Come abbiamo visto in precedenza, anche se non aveva aderito alla Convenzione di Ginevra l'Urss si era data una serie di regole, che però nei primi mesi di guerra erano state disattese a causa dell'asprezza del conflitto. Il regolamento datato 1941 era stato approvato dal Consiglio dei commissari del popolo (Snk)
e portava la firma del presidente, Josif Stalin. Esso prevedeva il lavoro facoltativo per gli ufficiali, e per chi aderiva vi era la possibilità di ricevere un compenso stabilito dalla Direzione del Commissariato del popolo per gli affari interni, e la separazione tra ufficiali e soldati nei campi (fatto che si verificò puntualmente solo dall'aprile del 1943). In realtà la truppa italiana fu subito utilizzata per alcuni lavori anche pesanti; i prigionieri erano divisi in tre categorie a seconda delle capacità fisiche. Alle volte potevano esserci turni che duravano dodici ore e il compenso era calcolato in base ad una "norma" che veniva stabilita da una commissione apposita.
Attraverso i documenti d'archivio è stato interessante verificare la quantità di regolamenti che il Commissariato del popolo emise in favore dei lavori che dovevano essere svolti dai prigionieri.
Alla fine del conflitto fu poi emesso un regolamento circostanziato in base al quale furono stabilite norme precise per il lavoro dei prigionieri. Questi erano seguiti da una Commissione medico lavorativa (Cml) che assegnava e seguiva i lavori; in base a tali ordinanze i prigionieri furono suddivisi in tre categorie di lavoro: quelli atti a lavori pesanti e pesantissimi, quelli idonei a un carico medio-pesante e quelli adatti a opere leggere. Il lavoro doveva in ogni caso essere retribuito con un compenso non superiore ai 200 rubli mensili. Secondo le testimonianze dei prigionieri e dei loro carcerieri, questi lasciarono un buon ricordo nella popolazione locale soprattutto grazie alla qualità dell'opera prestata. Gli italiani infatti erano capaci di ingegnarsi con i più improbabili attrezzi e nel corso della loro detenzione furono impiegati in svariate mansioni: dalla costruzione di tratti stradali, ad alcune opere in falegnameria nei colcos, come contadini e in qualità di taglialegna nei boschi.

Fonti. Cattura e prigionia, tratto dal saggio di Giuseppe Rasolo, "l'impegno", a. XV, n. 2, agosto 1995 e n. 3, dicembre 1995
© Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli.