4a Divisione Alpina Cuneense  
Campagna di Russia

La prigionia.
Testimonianze.

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"Noi ufficiali, sottoufficiali, soldati, scampati dalla spaventosa prigionia di Russia, liberi finalmente da ogni morale e materiale coercizione, nel varcare i sacri confini della Patria ricordiamo alla Nazione le tante decine di migliaia di nostri compagni, morti nella prigionia di Russia per fame, freddo, epidemie e inumano trattamento. Facciamo appello al Governo Italiano perché richieda ed ottenga il sollecito rientro dei nostri connazionali, arbitrariamente trattenuti in prigionia, con la complicità di alcuni elementi che additiamo al disprezzo del Paese come indegni del nome italiano..."

Questo appello venne scritto in Austria dove sostarono per il rientro in Italia dai gulag 552 ex prigioneri--- L'appello fu firmato da 526.

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Gulag (dal russo ГУЛАГ: Главное Управление Исправительно— Трудовых Лагерей, "Glavnoye Upravleniye Ispravitelno-trudovykh Lagerey", "Direzione principale dei campi di lavoro correttivi") era il ramo della Polizia dell'interno e servizio di sicurezza sovietico che costituì il sistema penale dei campi di lavoro forzato. Benché questi campi fossero stati pensati per criminali di ogni tipo, il sistema dei Gulag è famigerato soprattutto come mezzo di repressione degli oppositori politici dell'Unione Sovietica.

prigionieri italiani del campo di Spassk di Alberto Rosselli

Tra i prigionieri di guerra detenuti a Spassk c'era l'artigliere alpino, Andrea Bordino di Castellinardo (Cuneo) che nel dopoguerra, dopo essere rientrato in Italia, prese l'abito talare diventando fratello Luigi e prestando servizio presso l'Istituto Cottolengo di Torino. Qualche anno fa è iniziato il suo processo di beatificazione durante il quale sono state raccolte molte testimonianze sulla sua vita esemplare, comprese quelle relative al periodo da lui trascorso dietro il filo spinato di Spassk. E queste preziose memorie, minuziosamente vagliate e confrontate con i ricordi di alcuni suoi compagni di prigionia sopravvissuti, hanno consentito di ricostruire, almeno in parte, anche alcuni degli aspetti della vita in questo ed altri campi del Kazakistan.

"Furono circa 8.000 gli italiani (soldati dell'ARMIR) che vennero trasferiti nei gulag del Kazakistan", ricorda il soldato Pietro Ghione. "Io mi trovai in compagnia con Andrea Bordino nel campo Ievetnot Sodieved 99 di Spassk. Le nostre condizioni fisiche e psichiche erano talmente disastrose che stentavamo a reggerci in piedi. Per tre o quattro mesi Andrea ed io abbiamo condiviso la stessa baracca. Eravamo distrofici e non potevamo sopportare lavori troppo pesanti. I prigionieri ancora sani venivano spediti nelle miniere o, più raramente, se si trattava di un tecnico o di un operaio specializzato, in qualche fabbrica. A chi lavorava all'aperto venivano dati dei vestiti di pelliccia grezza. Ma all'interno del campo eravamo ricoperti di stracci. Il freddo era tremendo e il cibo scarso. Noi malati eravamo talmente prostrati che facevamo fatica perfino a parlare. Certi, tuttavia, riuscivano talvolta a cantare e, soprattutto, a pregare. Ma tutte le notti qualcuno di noi ci lasciava la pelle".

"Solitamente le guardie russe non ci maltrattavano gratuitamente", continua Pietro Ghione. Andrea aveva dei foruncoli nella schiena grossi come uova. Quando si aprivano lasciavano un buco profondo. Soffriva terribilmente, ma non si lamentava. Parlai di lui ad un medico tedesco, prigioniero nel campo, il quale a sua volta, si consultò con un collega russo, che fece trasferire Andrea Bordino in un ospedale chiamato il Lazzaretto. Per almeno tre mesi non ho avuto più sue notizie. Credevo forse morto. Poi, nella primavera dell'anno seguente, prima di lasciare la Siberia, l'ho rincontrato. Era ridotto a pelle ed ossa, ma i bubboni sulla schiena erano guariti. Degli 8.000 che eravamo quando arrivammo al campo 99, siamo ripartiti per l'Italia in poco più di 200".

"Durante la buona ma breve stagione - racconta il soldato Giovanni Mana, anch'egli rinchiuso a Spassk - chi era in grado di lavorare veniva mandato nei campi, mentre in inverno venivamo spediti nelle miniere. Giunsi al campo 99 verso la fine di aprile. La notte era ancora molto fredda e il termometro scendeva a meno 20. Non veniva mai giorno, ed era subito buio nelle prime ore del pomeriggio. Ricordo che il ghiaccio cominciò a sciogliersi a maggio inoltrato. In ogni campo vi erano parecchie baracche in parte già occupate da prigionieri rumeni ed ungheresi. C'erano anche alcune case in muratura, costruite dai membri di una spedizione mineraria inglese insediatasi in questa regione negli anni Venti per avviare lo sfruttamento delle miniere. Tutte le costruzioni - continua Mana - erano cintate da tre sbarramenti di filo spinato, uno dei quali alto tre metri e attraversato da corrente elettrica ad alto voltaggio. Le garitte per i soldati erano in legno ed erano sistemate su torri alte parecchi metri e situate un centinaio di metri l'una dall'altra".

I prigionieri italiani alloggiavano in baracche di legno con il tetto in lamiera. All'interno i letti erano a castello, a tre o quattro piani. Ognuna delle baracche ospitava un centinaio di uomini. "Nei mesi invernali era impossibile uscire dalla baracca senza morire assiderati". L'appello (cioè la conta) avveniva quattro volte al dì, e durante le giornate più fredde veniva fatto all'interno delle baracche onde evitare che i prigionieri, molti dei quali indossavano laceri cappotti e copricapo di fortuna, cadessero a terra.

Un giornata nel gulag

"Nel campo 99 la sveglia era alle sei, quando restavano ancora parecchie ore di buio fitto. Prima veniva la conta dei prigionieri e poi i russi ci costringevano a lavare i pavimenti della baracca. Bisognava combattere i pidocchi. Una volta alla settimana ci facevano fare una doccia, ma l'acqua spesso mancava. Verso le otto ci davano il ciai, una specie di tè, e qualche volta un pezzo di pane nero. Alle dieci e mezza ci passavano la prima scodella di miglio. Poi, intorno alle quattro del pomeriggio, quando ormai era buio, ci toccava la seconda scodella di brodo di miglio, accompagnata qualche volta da un pizzico di farina o da una patata.
Ogni giorno ci era concessa un'ora di riposo, che era solitamente dedicata all'indottrinamento politico. Qualche volta ci lasciavano cantare, ma era d'obbligo l'Internazionale. Più raramente ci era concesso di cantare motivi alpini o pezzi d'opera popolari. I russi amavano le canzoni italiane. Spesso, la sera, si pregava in silenzio".

I cannibali di Spassk

Pietro Ghione, prigioniero in Kazakistan con fratello Luigi, ha affermato "di avere visto un prigioniero ungherese cibarsi delle carni d'un soldato italiano morto". Questa testimonianza è avvalorata da quella del soldato di fanteria Bruno Borettini, della Divisione Pasubio, anch'egli ospite di una delle baracche di Spassk.
"La mia storia è quella di un povero contadino che dopo essere stato arruolato ha combattuto in Iugoslavia e in Russia. Nel novembre 1941 fui preso prigioniero a Stalino e venni spedito in Kazakistan, precisamente a Karagandà, Campo n. 99. In quel momento noi italiani eravamo in 500; gli altri prigionieri appartenevano ad altre nazionalità. Un giorno, tormentato dalla fame, andai a raccogliere dell'erba che mi sembrava commestibile. Ma mi sbagliai: era velenosa. Fui ricoverato al Lazzaretto dove mi fecero una lavanda gastrica. Dopo qualche mese di fame e freddo ebbi una pleurite bilaterale. Ma i russi non volevano ricoverarmi perché dicevano che fingevo. Un ufficiale medico tedesco mi visitò e con una rudimentale siringa mi aspirò due litri di acqua dalle pleure. Me la cavai soltanto perché avevo un fisico robusto.

"Un giorno ci dissero che ci avrebbero mandati a casa. Venimmo caricati su una tradotta merci, ma dopo cinque giorni di viaggio ci scaricarono a Taskent per poi trasferirci al campo n.26/2 di Paktaral. Incominciava un secondo calvario. Poco pane, poca minestra, e molto lavoro nei campi di cotone. La mattina uscivamo scortati da "collaborazionisti" italiani vestiti alla russa e armati di fucile. Non ero capace di mandare giù questa cosa. A causa della fatica arrivai a pesare 38 chili. Diventai un distrofico, e allora mi lasciarono alla baracca.
"Passai altri due anni e mezzo di prigionia. Poi, quando venne il giorno del mio rimpatrio, mi ammalai. Era la malaria. Due miei commilitoni napoletani mi presero sotto braccio e mi accompagnarono fino alla stazione di Paktaral. Sono sicuro che se le autorità russe avessero saputo che avevo la febbre non mi avrebbero lasciato partire. Tornato in Italia, al mio paese, il sindaco, che era un comunista, mi promise un lavoro dignitoso. Ma siccome un giorno mi sorprese in un'osteria a parlare male dell'Unione Sovietica ritirò la parola. Io sarò anche un poveraccio, un contadino, ma questa è stata proprio una bella carognata".

NOTE
Tra il 9 e il 16 agosto 2002, una delegazione di 25 vescovi e rappresentanti di Conferenze episcopali dell'Europa e dell'Eurasia, insieme al Presidente del CCEE, Mons. Amédée Grab, vescovo di Coira, ha realizzato una visita ai principali campi del Kazakstan. Lo scopo del viaggio era la commemorazione dai milioni di deportati di diverse nazionalità che Stalin fece rinchiudere nei lager del Kazakstan. Come ha raccontato Aldo Giordano, Segretario generale CCEE, "la delegazione ha fatto anche visita al gulag di Spassk, presso Karaganda, dove nel 1941 fu costruito dai comunisti un campo speciale per i prigionieri di guerra Ancora oggi nella steppa si trovano i cippi e le croci che ricordano i sepolti russi, ucraini, tedeschi, austriaci, rumeni, ungheresi, italiani, polacchi, cechi, slovacchi, francesi, giapponesi".

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Il Dottor Egidio Franzini, ufficiale degli alpini, pubblicava nel 1946 nel suo libro "In Russia": " A Krinovaja la tragedia dei prigionieri italiani toccò forse il suo vertice massimo. Nel delirio provocato dal digiuno vennero commessi atti difficilmente immaginabili o descrivibili. Episodi di cannibalismo vennero limitati costituendo squadre di vigilanza armate di barre metalliche. Un artigliere dipendente del Te. d'artiglieria Eugenio Corti, XXXV Corpo, 61 Gruppo, già presso il Comando 2° Battaglione dell'80° Fanteria, ad Abrassimow riferisce che durante la marcia fra Arbusow e Tcerchowo, tra i prigionieri in mano russa si registravano tre casi di antropofagia collettiva. Altri casi si dicono commessi in una chiesa parte diroccata, a due giorni di marcia oltre il Don, dove i prigionieri erano così pigiati da faticare a starvi in piedi. Altri episodi vennero riferiti in Tartaria e a Kazan sul Volga. Il P.V. assicura di aver veduto più volte arrivare vagoni di prigionieri rumeni; i morti nei carri bestiame, erano "aperti" dai compagni folli per la fame. Solo ai primi giorni di maggio del 1943, migliorarono le condizioni generali in quasi tutti i campi di prigionia

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Nel campo di Suzdal

Ai prigionieri italiani e romeni che vi giunsero verso la metà del gennaio 1943 fu negato lo spettacolo delle meraviglie della città museo: forse perché arrivavano di notte o forse perché non avevano la forza di guardarsi attorno dopo aver marciato sulla pista ghiacciata per 40 km dalla stazione di Vladimir. Valicarono l'alto torrione d'ingresso e passarono sotto l'arco della Annunciazione, ignari di lì a poco di calcare il pavimento di alcuni dei più famosi conventi del mondo. Nessuno disse loro dove fossero giunti e quale fosse la storia leggendaria del Lager 160 per prigionieri di guerra. Vi fu il solito interrogatorio e la solita minuta perquisizione con una prima sommaria divisione tra ufficiali e soldati. Gli Ufficiali vennero avviati all'ex dormitorio dei monaci, con celle più o meno ampie con due assi per dormire e una stufa di mattoni però priva del combustibile. I soldati romeni, italiani, croati furono alloggiati invece in quello che fu chiamato " III Korpus" dove non esistevano plance (panche) di legno, ma la nuda terra battuta. Dal mese di gennaio al mese di aprile entrarono nel lager circa 2800 militari: ne sopravvissero non più di 200 (di più in altra versione). E' la medesima percentuale che si riscontrò negli altri campi tristemente famosi come Krinovaja, il cimitero degli alpini, Tambov, Elabuga ecc..ecc.. Al primo appello che venne effettuato dopo la moria di tifo petecchiale sul viale ancora innevato, i presenti erano esattamente 72, aumentati a 130 col rientro di quelli che erano stati trasferiti all'ospedale esterno oltre ad alcuni romeni. Durante questo primo periodo la alimentazione dei prigionieri consistette normalmente in una zuppa

di cavoli acidi senza grassi e 600 gr. di pane nero al giorno. 
I prigionieri dovevano recarsi a sera inoltrata nel locale che era stato adibito a cucina ( la chiesa di San Nicola ) a prelevarvi i secchi di zuppa, in ragione di uno ogni 15 persone e il pane. Soldati affamati romeni si aggiravano nel buio per assalire i portatori. Si dovettero formare squadre di difesa con coloro che erano ancora in grado di tenere un bastone in mano. I russi in questo periodo, pareva non esistessero: solamente le sentinelle marciavano su e giù nei bastioni e le sestry (sorelle-infermiere) irrompevano in qualsiasi ora del giorno e della notte vestite di scuro per costringere i malati di tifo, dissenteria a seguirle nel bagno e quindi al lazzaretto dove venivano ricoverati gli infetti. Allontanarsi dai propri compagni, dover morire da soli, senza il conforto la vicinanza di un amico, era il timore più grande di coloro che venivano attaccati dal morbo. Si ebbe più di un ammalato che fuggì dal lazzaretto, conoscendo ormai quale fosse la sua sorte, per

confidarsi a un amico per consegnare uno scritto, una fotografia da riportare in Italia. Nel lazzaretto dislocato nel palazzo dell'Archimandrita a volte compariva un sanitario che distribuiva qualche cucchiaiata di permanganato, unico farmaco esistente nel campo. Circa il bagno abbiamo una inedita descrizione dal diario di un ex prigioniero:
" La costruzione adibita a bagno si trovava sul lato opposto a quello dell'ingresso. Si divideva in quattro parti, La prima era costituita da una specie di corridoio di tre o quattro metri di larghezza e una decina di lunghezza. Serviva da spogliatoio e sulla destra della porta d'entrata era sistemato il forno di disinfestazione in cui veniva gettato il vestiario (non per bruciarlo). In fondo un vano senza porta conduceva al bagno, una stanza quadrata di sette metri. Sul soffitto era sistemata una tubatura di ferro che correva attorno a tre delle pareti e dalla quale sgorgava l'acqua da fori praticativi. Lungo le pareti erano sistemate delle panche fradice, unica suppellettile del complesso. I prigionieri cercavano di conquistare un posto presso la parete al di là del quale c'era il forno alimentato a legna. Si usciva da questo stanzone per passare nell'ultimo locale dove ci si rivestiva con i panni che venivano estratti dall'altra parte del forno."

Il rituale era sempre uguale. I prigionieri vi erano condotti dalle infermiere che provvedevano anche alla loro depilazione completa con macchinette e rasoi. Nel bagno scene di miserabili corpi scheletriti che si battevano per appoggiarsi al muro. Se la mischia durava a lungo intervenivano i soldati croati nominati dai russi, in nome della fratellanza panslava, kapò (sorveglianti). Non di rado più di un prigioniero veniva trascinato fuori dalle docce ormai cadavere. I vestiti poi quando venivano estratti bruciacchiati dal forno brulicavano delle larve appena nate, grazie al calore del forno che non era bastato. In queste condizioni gli infetti venivano condotti al lazzaretto vestiti di un camicione impregnato di un liquido nauseabondo e sdraiati su pagliericci dove avrebbero atteso la morte. Ogni giorno i cadaveri venivano trasportati nel sotterraneo della cattedrale della Trasfigurazione, spogliati e lasciati a congelare in attesa di essere nottetempo traslocati con slitte in una grande fossa comune fuori del campo. Durante questo periodo i più sani, ufficiali compresi, furono adibiti alla spalatura della neve dai bastioni: altro lavoro particolarmente raffinato era quello di sturare i pozzi neri che per il gelo erano continuamente intasati di urina e di escrementi che giungevano fino alle porte delle celle. I più fortunati erano adibiti a scaricare la legna o a lavorare in cucina, con la possibilità di avere un pezzo di legno e una cucchiaiata di minestra in più. All'inesistenza di tutto faceva riscontro invece l'assistenza politica. Al lager 160 arrivò un certo triestino, Roncato, che dapprima si presentò come francese, in divisa russa. Il suo compito fu quello di iniziare l'opera di indottrinamento politico tra gli ufficiali che eseguì con zelo, ma senza troppo seguito: le cause principali; fame .. fame.. freddo. Uomo alquanto rozzo, il Roncato, quando le epidemie non ebbero più vittime, riuscì a costituire un primo nucleo antifascista, con un gruppo di sparuti ufficiali. Cominciò a tenere delle riunioni con gruppi di prigionieri, intrattenendoli più che altro sui suoi presunti avventurosi ricordi personali. 

Le sue conversazioni erano zeppe di quel porco di Mussolini, quell'idiota di Vittorio Emanuele, che ovviamente ottenevano il solo effetto di irritare i suoi ascoltatori. Un errore madornale poi lo commise quando lasciò un foglietto di appunti che gli erano serviti da traccia, pieno di errori di ortografia. Fu sostituito da un bolognese, nome di battaglia Rizzoli, nome vero Gottardi. Tutti questi facevano capo a Paolo Robotti, cognato di Togliatti, che appariva nel campo nelle occasioni più importanti e che dirigeva a Mosca il giornale l'Alba . Il gruppo antifascista che si era formato era guidato da un maggiore russo Procuranov che parlava italiano e informava gli adepti mensilmente sull'andamento della guerra. Analogamente la pasionaria romena Anna Pauker faceva per i suoi concittadini. Lasciamo per ora il problema politico ed i fatti che seguirono il 25 luglio del 43(caduta di Mussolini) per vedere come si evolve la situazione dopo la decimazione invernale e primaverile. Arrivato un nuovo comandante russo (Novikov) in sostituzione dell'evanescente che aveva permesso la perdita del 80% dei prigionieri, giunse anche la voce di un decreto di Stalin che avrebbe migliorato le condizioni con una priorità: romeni, italiani, ungheresi e tedeschi. Non venivano citati i già facilitati croati, i finlandesi e la legione Azzurra Spagnola.

Il nuovo colonnello mise subito in atto alcuni provvedimenti che lasciavano prevedere un certo miglioramento nelle condizioni di vita. Quelli che erano sopravvissuti, nel lazzaretto, seppero che falegnami stavano preparando castelli di legno, nelle celle quasi vuote. Il vitto migliorò quando cominciarono ad arrivare le derrate USA. La neve si scioglieva lentamente e il campo presentava grandi macchie di erba verde. Allora vedevi uscire al sole scheletri di quaranta chili, trascinarsi sui vialetti del vecchio monastero appoggiati l'un l'altro, quasi ad assorbire dal sole la linfa vitale. Era lo stesso colonnello che li incitava a muoversi, e quelle larve di uomini tentavano sotto gli occhi del maggiore russo (della cellula) di fare anche ginnastica. Le razioni ora erano composte al mattino da 300 gr. di pane bianco, pochi grammi di burro salato o strutto o lardo, 10 gr di zucchero e ciai (tè) caldo. A mezzogiorno e alla sera equamente ripartiti altri 300 gr. di pane nero, una zuppa di piselli o cavoli e patate, una polenta (kascia) di grano saraceno o avena o farina di soia. Qualche volta del pesce secco. Escluso il pesce, il te e le granaglie tutto il resto era americano. Dopo tre mesi di cura alimentare, il regime subì qualche cambiamento. Sparirono pane bianco, diminuirono piselli e granaglie ad alto contenuto calorico. Il regime precedente restò in vigore solo per i distrofici in base allo stato fisico e per qualche politico raccomandato. Con il 25 luglio e le discussioni del dopo, si era creata una frattura anche all'interno dei ben disposti a causa del destino di Trieste vista dai Russi come cosa loro o di Tito. (allora i rapporti erano cordiali). Il destino di Suzdal era stato già deciso alcuni mesi prima, quando nelle alte sfere si destinò il campo a prigione per ufficiali, in particolare tedeschi catturati a Stalingrado.

Stalingrado era caduta alla fine di gennaio del 43 e il colonnello (Von) PAULUS e lo stato maggiore si erano consegnati ai russi del generale Laskin. Sottoposto per oltre due mesi ad interrogatori, Paulus giunse a Suzdal in aprile con 60 suoi alti ufficiali, alcuni generali romeni, e tre generali italiani catturati sul Don: Battisti (Cuneense), Ricagno (JULIA), Pascolini (Vicenza). Paulus fece vita molto appartata finché un giorno fu trasferito (si era convertito, non rientrerà mai più in Germania). Vi restò invece un irriducibile, il suo capo di stato maggiore Schmidt che incanutì nei lunghi anni di prigionia isolato da tutti. Continuarono ad affluire al campo, per buona parte del 43, ufficiali italiani circa 600 da tutte le regioni, compreso la Siberia. La quota italiana era sempre maggioritaria e con la partenza dei romeni, che andarono a combattere a fianco dei russi, i servizi furono affidati a noi. L'infermeria veniva diretta da un medico russo d’origine romena, d’ottime qualità umane coadiuvato a turno da medici italiani e tedeschi. Il 28 aprile del 43 il comando sovietico aveva distribuito una cartolina della croce rossa per scrivere a casa una volta al mese e per ricevere posta e forse pacchi. Il 1944 fu un anno di lento ritorno alla normalità. La posta dall'Italia non arrivava, figurarsi i pacchi. Nell'estate proliferarono gli intagliatori di legno e ossa (ungheresi). Si organizzò una partita di calcio (fra italiani) e qualche spettacolo con strumenti raffazzonati. Il desiderio di vivere risorgeva. Quando venne annunziata la fine della guerra, il comando russo propose agli ufficiali di recarsi a lavorare nei Kolchoz (fattorie) dei dintorni. Pochi ufficiali provenivano dalle campagne, ma tutti s’inserirono ugualmente: taglio dei cereali, raccolta dei cavoli e delle patate, trebbiatura erano i lavori prevalenti.

I prigionieri, pagati dai Kolchoz, non vedevano una lira perché tutto andava alla direzione del campo, ma in cambio ebbero qualche aggiunta al vitto, compreso il latte. Il dirigente Rizzoli fu sostituito verso la fine del 45 quando cominciarono i primi rientri, e pure lui rientrò. Molte famiglie furono avvertite solo allora dell'esistenza in vita del loro congiunto. Il nuovo venuto, Ossola, fu una figura anonima, una comparsa così come i comandanti militari del campo che sostituirono Novikov: Krastin e Gherassimov. Proprio per l'indifferenza di questi non sempre le condizioni fissate per il vitto vennero rispettate. Tanto che si arrivò ai primi del 46 con uno sciopero della fame per l'incuria e la disonestà dei funzionari preposti agli approvvigionamenti. Per diversi giorni ormai alla vigilia del rimpatrio venne servita una zuppa a base d’ortiche e sansa di soia, residuo della lavorazione dell'olio. I più affamati che l'accettavano la restituivano ai pozzi neri del campo nelle medesime condizioni nelle quali era entrata. Il maggiore russo responsabile del vitto, soprannominato krapiva (ortica), si preoccupò dopo pochi giorni di avvertire che sarebbero giunti alcuni carichi di carne. E' così fu infatti: si trattava di teste, corna, zoccoli e garretti di bovini. L'ultima beffa, ma ormai era finita.  (Testimonianza di Emilio Vio  3°Bersaglieri)

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Testimonianza di Michele Massucco, classe 1918, di Spinetta (Cuneo). "Quando l'insegnante era Palmiro Togliatti" Dal giornale "La Guida" di Cuneo, del 28 settembre 2007:

"Michele Massucco, classe 1918, da Spinetta, ha messo a disposizione degli organizzatori della Mostra di Madonna delle Grazie alcuni quaderni. Sono gli appunti presi in Russia, dove, durante gli anni di prigionia in Unione Sovietica, sino al 1945, ha persino frequentato la "scuola di antifascismo". Come insegnante aveva Palmiro Togliatti."Andavamo in classe tutti i giorni", racconta "parlavano e parlavano e noi dovevamo stare ad ascoltare. Sono riuscito ad imparare il russo, lo capivo bene e spesso facevo da interprete ai miei compagni. Sono stati tempi durissimi. Non avevamo molto cibo e, per di più, dovevamo donare il sangue. Me la sono cavata perché stavo in cucina e riuscivo a mettere qualcosa in più sotto i denti".

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Intervista al Generale Martini, prigioniero del campo di Suzdal. A cura di Maria Paola Gianni

Generale Martini, qual è il particolare più significativo che ricorda al momento della cattura?

            “Era il 21 dicembre 1942. I carri sovietici avevano cominciato l’azione di “schiacciamento”. Non c’era tempo da perdere, non dovevamo far cadere la bandiera in mano al nemico. Strappammo il drappo con le unghie e con i denti e ciascuno di noi ne prese un pezzo e lo mise sul petto. Spezzammo l’asta e seppellimmo la freccia scavando nella neve e nella terra. I sovietici, infatti, si dilettavano a trascinare nel fango la bandiera del nemico, in segno di vittoria e di forza. Alla fine della guerra i russi fecero sfilare per le strade di Mosca la massa dei prigionieri tedeschi, e poi buttarono nel fango tutte le bandiere naziste. Ancora oggi sono tenute in mostra nei musei sporche di fango, così come ci sono ancora le bandiere prese a Napoleone, perché loro non dimenticano mai. Ma i musei della ex Unione Sovietica non espongono bandiere italiane, perché non sono siusciti mai a prenderle”

Cosa accadde appena catturati? “Con la baionetta gelida ci strapparono subito di dosso il cinturino dell’orologio, poi ci disarmarono, e iniziò la marcia del “davai” (avanti). Eravamo sfiniti dalla fame, dal freddo e dalla tensione nervosa. Per fortuna i “valenchi” che mi aveva portato il mio attendente a Popowka mi tenevano i piedi caldi. In Albania, avevo avuto il congelamento di 2° grado. Fin dagli inizi ebbi la sensazione che ben pochi saremmo rientrati in Italia. Oggi so che degli italiani fatti prigionieri tra il ’42 ed il ’43, dopo quattro lunghissimi inverni trascorsi nei “gulag” sovietici, ne è tornato in Patria solo uno su dieci: il 90% dei prigionieri è stato trucidato, uomini morti di fame e di stenti, sterminati dalle tremende epidemie scoppiate nei campi di concentramento. Quanti di noi morirono vittime della ferocia delle scorte, del freddo sempre al di sotto del 20° sotto zero e della fame che ci attanagliò lo stomaco e le viscere dall’inizio alla fine?Io e coloro che mi furono vicini fummo certamente salvati da quelle zollette di zucchero e chiodi di caffè che erano gelosamente custoditi da me in fondo al tascapane che portavo a tracolla e dal quale non mi separavo mai. Molti di noi lamentavano piaghe alle estremità, congelamenti al naso, alle orecchie, alle mani, alle parti intime. L’unica volta che durante le marce ci diedero qualcosa da mangiare, si pietrificò: appena versato nella gavetta gelata, il mestolo di grano bollito diventò immediatamente un pezzo di ghiaccio in fondo al recipiente e ci misi diversi giorni per finirlo”.

E finite le marce del “davai”? “Arrivammo ad una stazione. Ci stiparono come bestiame, cento per vagone, stretti come sardine e partì il secondo travaglio. Il 21 gennaio ’43 iniziò il “lavaggio naturale del cervello”, o meglio “la fase di rinascita biologica”, termine più appropriato, perché i sovietici sapevano benissimo che il tifo ha la caratteristica particolare di far rinascere a nuova vita i soggetti che, riusciti a superare la fase critica, sopravvivono alla malattia. Indubbiamente, già in precedenza, i sovietici avevano sfruttato scientificamente quelle caratteristiche della malattia nei loro gulag politici di rieducazione.Si trattava di saper sfruttare gli effetti biologici determinati dalla malattia sui malcapitati superstiti. Arrivati a destinazione, dopo tutte le misure preliminari quali la schedatura, fecero chiudere le porte del monastero che ci “ospitava”, dopo di che ci riunirono in un salone sull’ingresso del quale campeggiava lo stemma con la scritta “Proletari di tutti i paesi, unitevi!”. Quel locale venne chiamato “club”, e come tale, con l’aggiunta della dicitura che ne mascherava la reale funzione, di centrale della propaganda comunista, “gruppo antifascista”. Ridotti a larve di uomini, eravamo molto più vulnerabili ed il rischio di assimilare le teorie del marxismo-leninismo era alto, c’erano altoparlanti inneggianti al comunismo e volti ad infangare la dottrina fascista. Aprirono anche una biblioteca e crearono un gruppo “cosiddetto” antifascista, che poi era l’anticamera per diventare comunisti”.

Come era la vita nei gulag? “Era un inferno e i prigionieri, eccetto quelli che si vendevano per un tozzo di pane, erano diventati larve umane. Le condizioni igieniche erano terribili, i parassiti continuavano a tormentarci, avevamo sia la barba che i capelli lunghi, le unghie dei piedi e delle mani incarnite, il naso gocciolante. Quando nel nostro campo di Suzdal n. 160, in provincia di Vladimir, vennero riuniti tutti gli alti ufficiali provenienti dagli innumerevoli lager sparsi in Europa e in Asia, appresi simili sventure patite da altri prigionieri provenienti dai gulag. Nel campo di Suzdal fummo sistemati in 15-20 per ciascuna delle celle dove una volta i frati alloggiavano singolarmente. Nudi e tremanti, ci rendemmo conto di essere ridotti a quattro ossa appena attaccate tra di loro dai tendini ormai anch’essi rilassati; non più muscoli, ma pelle attaccata alle ossa…”

Come si è salvato? “Se io in questo momento le sto parlando lo devo a un uomo che era prigioniero con me in Russia, il capitano Emilio Lombardo, classe 1912, del Distretto di Messina. Allora Lombardo aderì al comunismo, entrò nel gruppo antifascista e fu mandato a Mosca. Aveva percorso tutte le tappe per diventare un uomo di fiducia di Paolo Robotti, il cognato di Togliatti, il quale aveva la sovrintendenza a tutti i prigionieri. Quando siamo arrivati a Vienna, Palmiro Togliatti, alias Ercole Ercoli, alias Mario Correnti, disse a Robotti che non voleva veder tornare gli ufficiali italiani, per non far raccontare loro l’accaduto. Purtroppo non ci sono documentazioni scritte, ma Togliatti, nei primissimi giorni del luglio ’46, decise di dirottarci in Jugoslavia, nelle foibe di Tito, dov’era facilissimo far scomparire ogni traccia. Per fortuna Lombardo, grande amico e confidente di Robotti, riuscì a capire la vera destinazione della nostra tradotta e si precipitò al comando alleato, per chiedere aiuto. Mi ricordo una gran frenata del treno a Vienna, gli inglesi, con le armi spianate contro i russi, hanno fermato la tradotta e ci hanno liberato. Eravamo più di 570, tutti ufficiali italiani, tutti scampati alla morte”.

Com’erano i russi? “Vi era una netta distinzione tra i russi comunisti e i non comunisti. La massa della popolazione era anticomunista, ospitale, rispettosa. I russi iscritti al partito, invece, erano in gran parte violenti e sanguinari, a causa della propaganda loro impartita che descriveva gli occidentali, cioè i borghesi capitalisti, come tiranni”.

E l’Esercito Rosso? “Nell’Esercito Rosso la differenza era ancora più netta. Ecco perché chi cadde prigioniero di truppe regolari subì una sorte migliore di chi finì in mano alle truppe della Nkvd, la polizia segreta russa, equivalente alle SS naziste”.

I famosi “vagoni della morte”? “Da quei carri si levava l’urlo implorante “vadà! Vadà!” (acqua! Acqua!). Io so che cosa accadde sulla tradotta ove mi trovavo, che fece scalo alla città di Vladimir. Lungo il tragitto, durato circa quindici giorni, le scorte aprivano i vagoni solo per scaricare i morti: li buttavano giù sul marciapiede ghiacciato. Il rumore dei loro crani che battevano a terra è un altro incubo per la mia memoria. Allo scalo di Vladimir scaricarono circa cinquecento cadaveri che vennero sepolti in una fossa comune che ora è diventata un parco pubblico”.

Ci sono ancora vivi, in Russia, soldati dell’Armir? “Una crudele e subdola propaganda comunista per oltre cinquant’anni ha fatto credere ancora vivi ed eventualmente con famiglia moltissimi degli italiani che non avevano fatto ritorno. D’altra parte molte famiglie preferivano credere a quelle inverosimili bugie, piuttosto che sapere e realizzare che i loro cari non c’erano più”.

Qual è la differenza tra un campo di concentramento russo e uno nazista? “Quando gli italiani che erano prigionieri dei tedeschi sono stati liberati dai russi, ciascuno di loro aveva ancora: un tascapane, un cucchiaio, una gavetta, una forchetta, un gavettino. Dopo due giorni che passavi in mano ai sovietici spariva tutto, non avevamo più un cucchiaio per mangiare la minestra. Noi in prigionia non avevamo nulla. Tanto per fare un esempio, le mie unghie crescevano e non sapevo come tagliarle, e non avrei nemmeno avuto il tempo per pensare di tagliarle anche se avessi potuto, perché l’unico mio pensiero era quello di trovare qualcosa da rosicchiare per sopravvivere. Non c’era nemmeno la possibilità di lavarsi, eravamo delle bestie, io camminavo a quattro zampe. I sovietici eliminarono tutte le salme dei prigionieri di guerra, perché gettate nelle fosse comuni. I nazisti uccisero barbaramente milioni di ebrei, mentre Stalin ne uscì con le mani pulite, perché non ha usato le camere a gas, ma li ha fatti morire per via naturale. Inoltre, siccome l’Inghilterra e l’America erano alleati, hanno avuto tutto l’interesse che non trapelasse nulla di quanto accaduto in Unione Sovietica, tutti sapevano, ma a nessuno è convenuto parlare. Dai lager nazisti arrivava regolarmente la posta, meno che nelle grandi battaglie o durante l’occupazione tedesca a Roma, dai prigionieri dei lager russi non è quasi mai arrivata né una lettera, né una cartolina. Molti degli italiani che morirono per malattia mentre erano nei lager nazisti nell’Europa dell’Est sono stati regolarmente seppelliti in cimiteri, e non in fosse comuni, vicino ai campi di concentramento. Caduto il muro di Berlino queste salme italiane sono rientrate, perché sono state ritrovate non solo le documentazioni di morte, ma anche le singole tombe con le rispettive ossa. Vuol dire che i tedeschi seppellivano umanamente le loro vittime”.

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Cannibalismo nel campo di Krinovaja. (Guido Maurilio Turla - Cappellano del Battaglione Saluzzo -  da "7 Rubli per il cappellano" (Longanesi - 1970)

Una sera degli ultimi di febbraio (1943), un alpino della Valcamonica viene a scongiurarmi di seguirlo nell'alloggiamento soldati. "Venga subito, padre; vogliono mangiare mio cugino. Compagni, pazzi e inferociti dalla fame, attentano alla sua vita". Lungo il percorso si notano evidenti tracce di antropofagia: scheletri decapitati, braccia e gambe spolpate, ventri squartati, brandelli di membra abbondanati tra detriti di ogni genere. L'alpino mi racconta di scene ributtanti che avvengono nottetempo. Suo cugino, uscito dal campo a lavorare, è stato colpito a fucilate da una guardia russa, nell'atto di lasciare la fila per raccogliere patate gelate ai margini della strada. Ne ha riportato una gamba stroncata ed è in pericolo di vita.

Al mio arrivo nell'alloggiamento, quattro forsennati tentavano di forzare la porta di una stalla con un legno appuntito, usato come leva. Il sangue di cui il ferito ha segnato il percorso, li ha richiamati alla porta, dietro la quale altri invasati difendono come un tesoro la sorgente di quel sangue. La mia presenza convince i disgraziati a desistere dalla mostruosità; riesco a far loro comprendere che quello che stanno facendo è un delitto orribile, che macchia la loro coscienza di cristiani e di italiani. Tornano a poco a poco, vergognosi, i se stessi. Ora non pensano più a bere il sangue del moribondo: pregano con disperata invocazione. Il ferito è in agonia, assistito da qualche amico e dal cugino. Gli uomini che occupano quella baracca sono complessivamente una ventina. Il moribondo ha coscienza di quanto avviene attorno; mi prega di salvarlo dalla ferocia dei cannibali. Lo tranquillizzo e accolgo la sua confessione; con lui assolvo tutti quelli che hanno le ore contate.....

In un'altra occasione... Un alpino aveva con sé un fratello; stavano sempre insieme, si parlavano continuamente, come se avessero tante cose da dirsi. Ciascuno aveva giurato all'altro di difendere il corpo contro gli assalti dei bevitori di sangue e dei mangiatori di visceri. Il servizio di sorveglianza, istituito (dagli alpini) per evitare tali eccessi, non arrivava dappertutto; ogni mattina si trovava qualche cadavere mutilato. Uno dei due fratelli si ammala, i compagni cominciano ad avvicinarsi al degente, ne fiutano la fine. Egli muore infatti dopo una decina di ore. E' già notte, nessuno sarebbe venuto a vedere quello che succedeva là dentro. Il fratello superstite rimane desto, con le spalle al muro, tenendo nell'arco delle gambe divaricate e con i piedi ben puntati contro il suolo, il corpo ratrappito del morto.

Lottando contro il sonno tiene d'occhio i compagni che intorno a lui fanno finta di dormire. In realtà alcuni fra essi aspettano il momento buono per impadronirsi del cadavere e cuocerne i visceri sul coperchio della gavetta. Verso l'alba vanno in due a parlamentare con fratello. Gli dicono che non è il caso che egli continui in quello sforzo, che bisogna togliere il morto di mezzo, si sarebbero incaricati loro due della sepoltura. Gli parlano dolcemente, con inconsueta bontà. L'alpino stanco di quella notte, di quel dolore, di quella mostruosa paura, cede alle insistenze, consegna il cadavere di suo fratello e ridendo si lascia cadere a terra, è impazzito.

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